Europa
01 febbraio 2023

Zelensky a Sanremo. I cannoni al posto dei fiori.


di Roberto PECCHIOLI 

Tutti i tempi vengono, diceva la nonna. Mai come negli ultimi anni ha avuto ragione. Ne abbiamo viste e subite davvero troppe e l’ultima sembra sempre la peggiore. Questa però è proprio grossa: il presidente ucraino Zelensky parteciperà al festival di Sanremo, in collegamento dal bunker in cui vive, probabilmente con la consueta tenuta verdastra da combattimento. Un attore anche nelle modalità della comunicazione. 

Non è dato sapere il cachet della prestazione a carico del contribuente italiano, che paga una tassa per il possesso del televisore direttamente con la bolletta elettrica, sia o meno sintonizzato sull’ex vetrina della musica, diventata da tempo un insopportabile, ipertrofico carro di Tespi teso non a valorizzare talenti canori, ma a promuovere l’ideologia dominante. 

Il festival del neo conformismo obbligatorio mostra la verità dell’intuizione di Guy Debord sulla società dello spettacolo. L’ intero sistema economico, sociale e politico del capitalismo moderno ha prodotto una trasformazione devastante. La profezia del situazionista Debord si è realizzata e ci troviamo immersi nello spettacolo generalizzato, elemento unificante di un teatro permanente, frutto maturo della globalizzazione. Realtà e virtualità si intrecciano davanti a un pubblico plaudente, passivo, il cui compito è assorbire come una spugna il messaggio del potere sotto forma di intrattenimento. 

La guerra non sfugge al meccanismo, ma c’è una falla- enorme- nel progetto della società spettacolo: la morte non è intrattenimento, la propaganda bellica non è un canale tra gli altri nell’offerta televisiva digitale, un bouquet a pagamento dell’incultura nazionalpopolare di cui il festival è l’esempio a uso di un pubblico non pensante. No, non lo possiamo accettare. Il rispetto per le sofferenze, il dolore, la morte, la distruzione portata dal fragore delle armi non possono essere oggetto di spettacolo e meno ancora di smaccata propaganda. 

Si afferma spesso che l’Italia- secondo costituzione- ripudia la guerra, il che non ci ha impedito di partecipare al bombardamento della Serbia e a numerosi altri conflitti, sempre in qualità di fedeli esecutori degli ordini di superiori stranieri, gli Usa e la Nato. Ma no, sbagliamo: quelle erano “operazioni di polizia internazionale” e di “mantenimento della pace” (peacekeeping). Così le ha descritte il padrone, e noi, cagnolini obbedienti, ci abbiamo creduto, a spese di tutti, oltreché versando sangue italiano per interessi altrui. 

Stavolta è perfino peggio, anche se finora non ci sono sul campo truppe nostre, almeno ufficialmente. Davanti a milioni di telespettatori (la grande audience del festival) il presidente di una delle parti in guerra potrà fare, a favore di telecamera, tra gli applausi del teatro Ariston e la commozione a fattura dei conduttori, il suo comizietto bellico. Non ci stiamo, non assisteremo allo sketch di Zelensky come non gradiremmo un pistolotto di Putin. La guerra è una brutta cosa, non è uno spettacolo ma una tragedia e soprattutto è un evento tremendamente reale, non un intermezzo virtuale tra un cantante e un monologo umoristico. 

Una vita fa, era il 1967, a Sanremo un complesso musicale, i Giganti, presentò un brano intitolato Proposta, che tutti ricordano come Mettete dei fiori nei vostri cannoni e divenne l’inno di un’intera generazione di pacifisti. Oggi è il contrario e Sanremo mette i cannoni al posto dei fiori, il prodotto per il quale è famosa. Nel frattempo, i pacifisti sono irreperibili, scomparsi dalle piazze insieme con i drappi arcobaleno. Ovvio, lo schema non è quello cui erano abituati: non c’è l’occidente capitalista contro un paese del Terzo Mondo o una nazione comunista. Il cortocircuito mentale dimostra l’insincerità del vecchio pacifismo: dietro l’arcobaleno si nascondeva la nostalgia rossa. 

Analoga dissonanza si coglie nella destra radicale, il cui antico anticapitalismo ed antiamericanismo è sfumato come neve al sole. Il vice ministro Isabella Rauti è arrivata ad affermare che le parole dei russi sono “becera propaganda, disinformazione per screditare l’Occidente.“ Dalla figlia di Pino, che rappresentò l’ala movimentista e culturalmente più viva di quel mondo, ricordiamo personalmente posizioni assolutamente incompatibili con le ultime affermazioni, a iniziare dall’idea di Occidente e dall’antiatlantismo proclamato per decenni. Si tratterà di un caso di omonimia, o di una conversione sulla via del potere. Quanto alla propaganda, becera o meno, come definire altrimenti la presenza di Zelensky al festival?

Chi scrive non ha visto la guerra, per fortuna. Ha però vissuto il dopo terremoto in Friuli: conosce la devastazione, le macerie, il volto senza espressione dei superstiti, l’odore impressionante, insopportabile della morte e della decomposizione. Per questo siamo indignati dinanzi al bellicismo parolaio, alla fornitura di armi, all’impossibilità- nel libero Occidente! - di ascoltare l’altra campana, ossia accedere alle fonti russe, i cui siti di informazione sono oscurati. Odiosa censura, e, come ricorda Carlo Freccero (uno dei pochi intellettuali non allineati all’Unico occidentalista), la reductio ad hitlerum, la demonizzazione della Russia, del suo presidente, del suo passato, dei suoi giganti. Vecchia tecnica americana: da una parte i buoni- lo Zio Sam e i suoi alleati/servitori- dall’altra il male assoluto, da estirpare con ogni mezzo, menzogna compresa.    

Non batte un colpo il pacifismo di radice cattolica, nonostante qualche appello di Bergoglio, l’unico, peraltro, ad avere parlato della lunga, bellicosa marcia della Nato verso i confini della Russia. Quanto alla sinistra, sorprende l’imbarazzato silenzio dinanzi al divieto e l’illegalizzazione di ogni partito e movimento socialista e comunista in Ucraina. Addirittura impressionante è la cancellazione storica: comunque la si pensi, fu l’Armata Rossa a entrare ad Auschwitz, eppure la Russia non è stata invitata alla cerimonia commemorativa del 27 gennaio. Nessun cenno alla geopolitica anglosassone storicamente antirussa, dalle teorie del britannico Mackinder sul controllo del “cuore della terra” (heartland), al suo seguito, l’idea americana di accerchiamento completo della Russia (rimland). 

In Italia impressiona – ed è il dato più desolante- la distanza tra il paese reale e le sue classi dirigenti. Sondaggi commissionati da giornali e reti televisive di regime confermano che una maggioranza amplissima è contraria all’invio di armi all’Ucraina. Addirittura schiacciante è l’unanimità sul non coinvolgimento diretto dell’Italia. In parlamento- teorico specchio della nazione e luogo della discussione politica- nessuno osa porre la questione. Eppure sarebbe in accordo con il sentimento prevalente; silenzio sulle spese militari che schizzano alle stelle in corrispondenza con un’inflazione pesante, bollette energetiche che mettono in ginocchio famiglie e imprese nel momento in cui dovremmo lavorare alla ripresa post epidemia. 

Chi e quando pagherà le forniture militari? Pantalone o l’estenuata Ucraina il cui PIL è in picchiata, distrutta dalla guerra, dalla fuga di milioni di abitanti verso Ovest e verso la Russia, (!!!) dalla scomparsa di una generazione intera di giovani sacrificati a interessi stranieri? La ricostruzione- quando ci sarà- vedrà in prima fila Black Rock e i fondi speculativi americani, non certo le imprese italiane. 

Le menzogne si susseguono alle menzogne: la Russia doveva crollare sotto il peso delle sanzioni e non è accaduto, anzi nel 2023 il PIL di Mosca aumenterà, dopo il modestissimo calo del 2022. In compenso, noi cerchiamo energia disperatamente e importiamo dall’India, a costi elevati, il gas russo e attraverso la Turchia i prodotti vietati dalle sanzioni. Ciononostante, l’Italia ufficiale- politica, stampa, cultura- è allineata come un sol uomo alla volontà dell’impero di cui siamo una provincia remota, tenuta sotto il tallone di una colonizzazione che non lascia spazio a obiezioni. Vietato non essere atlantisti, con buona pace di quella larga fetta d’Italia, comunista, socialista, cattolica, di destra nazionale e sociale, che non lo è mai stata o ha smesso di esserlo dopo la caduta del muro di Berlino. Nato significa alleanza del nord atlantico. Forse le pianure ucraine e la steppa russa sono lambite dall’oceano su cui si affaccia New York? 

E invece dovremo ascoltare, tra poche canzonette e molti comizi politicamente corretti (da anni la normalità sul palco di Sanremo) la propaganda di una delle parti in guerra, fatta direttamente dal suo presidente, eletto dopo un colpo di Stato sanguinoso finanziato dall’Occidente, che ha innescato una guerra civile che dura dal 2014 contro le popolazioni russe o russofone. 

Al nostro governo chiediamo quello che non farà mai: smettere di armare i belligeranti e lavorare affinché la parola passi dai cannoni a ragionevoli trattative. Esigiamo che il denaro degli italiani venga speso per i mille problemi che ci affliggono e che l’Italia non assecondi l’assurdo cammino verso una guerra totale. Il ministro della difesa tedesco, Annalena Baerbock-verde, dunque teoricamente pacifista- ha asserito che la Germania è in guerra con la Russia. Folle imperizia unita all’irresponsabilità cieca di classi dirigenti scelte per la fedeltà all’Impero, alla finanza internazionale, al Forum di Davos, i guerrafondai di sempre per interesse. 

Dio non voglia che i carri armati tedeschi marcino verso est come ottant’anni fa: sappiamo come è finita. Non siamo pacifisti a prescindere: la guerra esiste e talvolta è una terribile necessità della storia. Ma non possiamo tollerare l’impossibilità- che è in sostanza un divieto- di pensarla diversamente dall’Impero sulle ragioni di questo conflitto. Soprattutto, vorremmo che si ponesse l’interesse nazionale italiano –lo stesso dell’Europa- al di sopra del vassallaggio nei confronti degli Usa. La Russia non è nostra nemica, ha diritto a frontiere sicure e a non essere minacciate da un’alleanza militare che avrebbe dovuto scomparire insieme con il vecchio antagonista, il Patto di Varsavia. Ugualmente, la parte di Ucraina che vuole dimenticare la millenaria unione con i fratelli dell’est deve poter scegliere il suo destino. 

L’Italietta uscita dalla storia non può limitarsi al ruolo umiliante di protettorato americano e vittima di politiche che ne penalizzano gli interessi. I governanti si tolgano l’elmetto, a partire dal ministro Crosetto (che di armamenti si intende assai per professione) e ascoltino la voce del nostro popolo, che non vuole la guerra, non ha ragioni di odio nei confronti di nessuna delle due parti in conflitto e vorrebbe che il denaro pubblico andasse alla sanità, al lavoro, alla previdenza. Populismo, demagogia? Sempre meglio dell’ipocrisia bellica, dell’armare qualcuno affinché combatta in conto terzi, del silenzio servile nei confronti di un’alleanza politica e militare servile che è proibito contestare. 

La comparsata di Zelensky a una kermesse televisiva è l’umiliante prova della mancanza di volontà italiana di avere un ruolo internazionale autonomo. Mentre l’attore-presidente con villa a Forte dei Marmi parlerà alla platea del festival, migliaia di giovani europei di religione cristiana e di cultura simile alla nostra si staranno affrontando e morendo nel gelo del fronte. Non ci vergogniamo almeno un po’?   








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