Cattolicesimo
29 luglio 2022

Il Fine dello Stato e della Chiesa de jure


SUPREMA LEX ECCLESIAE:

SALUS ANIMARUM AUT INCARDINATIO?



Fine dello Stato e della Chiesa de jure

Il fine e la missione dell’autorità civile è la salus populi, che è la suprema lex di ogni potere temporale, perciò il Principe deve governare per il bene comune materiale della sua gente e non impedirne la vita normale; invece la suprema lex della Chiesa è la salus animarum, quindi il Prelato (Vescovo/Papa) deve governare per la salvezza eterna dei suoi fedeli. Come si vede il fine, per l’autorità della Chiesa, è la salvezza eterna mentre per l’autorità dello Stato è il benessere temporale; il mezzo è il governo ossia la Giurisdizione religiosa per la prima e civile per il secondo.

Quanto alla pratica lo Stato (potere temporale) deve governare per il benessere comune materiale dei cittadini; per esempio deve garantire loro l’educazione scolastica, quella sanitaria, la quiete pubblica interna (difendendoli dai delinquenti) ed esterna (difendendoli da eventuali aggressioni di Paesi stranieri); mentre la Chiesa (potere religioso) deve provvedere al benessere comune soprannaturale dei fedeli, aiutandoli a dar gloria a Dio e a salvare le loro anime, mediante l’insegnamento della Rivelazione divina (Magistero), la santificazione delle anime con i Sacramenti (Sacerdozio) e il governo etico/spirituale delle anime dando loro le regole di ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare per raggiungere il Paradiso (Imperio o Giurisdizione).

Stato e Chiesa sono distinti ma coordinati e subordinati, come il corpo e l’anima. Quindi, il fine dello Stato (bene temporale) non deve contrastare con quello della Chiesa (bene spirituale), ma deve facilitarne l’esecuzione per la subordinazione dei fini (il temporale è subordinato allo spirituale, il corpo all’anima, la materia allo spirito).



De facto

Per scendere alla pratica e in concreto, il Sacerdote ha il dovere e il diritto di amministrare i Sacramenti ai fedeli, di spiegare loro la dottrina cristiana e condurli in Paradiso alla luce dei 10 Comandamenti; lo Stato deve aiutarlo in questa sua missione, non può e non deve ostacolarlo, mandando, ad esempio, i carabinieri ad interrompere le Messe oppure legiferando in maniera contraria alla Legge divina, dichiarando lecita la uccisione dei feti nel seno delle loro madri.

In parole povere, il ruolo del potere civile e la sua ragion d’essere è di spingere ognuno verso il bene comune temporale subordinato a quello spirituale, che direttamente è procurato dalla Chiesa.

In pratica e nella situazione odierna, che si è venuta a creare soprattutto a partire dall’adorazione idolatrica del Pachamama in Vaticano (quanto al potere spirituale, autunno 2019) e a partire dalle norme anti/Covid fatte dal governo Conte/bis (potere temporale, inverno 2020), se Bergoglio o la CEI volessero impedire ai fedeli di ricevere i Sacramenti (sospensione della Messa pubblica domenicale) oppure volessero obbligarli a riceverli in maniera sacrilega (Eucarestia sulle mani senza purificazione dei frammenti dell’Ostia consacrata) o se il Governo civile volesse impedire la libertà di circolazione, di culto, di riunione e di espressione ai cittadini italiani, bisognerebbe applicare l’assioma: “Suprema lex Ecclesiae salus animarum et suprema lex Rei Publicae salus populi” e quindi occorrerebbe “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At., V, 29) come fecero gli Apostoli davanti alle ingiunzioni del Sinedrio, che li invitava a non predicare il Nome di Gesù. Infatti, se l’autorità civile e spirituale fallisce questa missione (bene materiale del popolo e salvezza delle anime) perde non soltanto il diritto di comandare, ma la sua stessa ragion d’essere, non ha più un perché, una qualsiasi utilità1. Insomma, essa non avrebbe più nessuno scopo di esistere, poiché governerebbe non per ottenere il suo fine ma per ostacolarlo. Ora “omne agens agit propter finem”. Quindi governare contro il proprio fine è un assurdo, essendo la negazione del principio primo e per se noto di finalità o di ragion d’essere. Infatti, i mezzi son definiti “ea quae sunt ad finem”. Ora impiegare il mezzo contro il fine è contro la natura delle cose, la retta ragione e la divina Rivelazione. Un mezzo (ad esempio un camion in panne in mezzo all’autostrada) che ostacoli il fine (circolazione autostradale) normalmente viene eliminato e rimosso di modo che non possa impedire il raggiungimento del proprio scopo. Così un’autorità che impedisce ai suoi sudditi di raggiungere il loro fine va rimossa o almeno non va presa in considerazione. Non mi riferisco solo all’autorità politica, ma anche a quella religiosa.



Due casi storici di doverosa resistenza all’autorità ecclesiastica

I - S. Pietro e l’incidente di Antiochia (49 d. C.)

Già nel 50 d. C., neppure 20 anni dopo la morte di Gesù, al Concilio di Gerusalemme, si assisté ad un fatto riportato dalla S. Scrittura, commentato dai Padri ecclesiastici, dai Dottori scolastici e dagli storici della Chiesa. Infatti è divinamente rivelato che, qualche tempo prima, San Pietro ad Antiochia si comportò in maniera riprovevole e San Paolo lo rimproverò.

Questo incidente “riprovevole” lo troviamo divinamente Rivelato in S. Paolo (Epistola ai Galati, II, 11), il quale afferma: «Ho resistito in faccia a Pietro, poiché era reprensibile»2.

Secondo la Tradizione patristica e scolastica (S. Agostino e S. Tommaso d’Aquino) S. Pietro peccò venialmente di fragilità nell'osservare le cerimonie legali dell’Antico Testamento, per non scandalizzare i Giudei convertiti al Cristianesimo, ma provocando così lo scandalo dei Cristiani provenienti dal Paganesimo convertitisi al Vangelo. E secondo la divina Rivelazione vi fu una resistenza pubblica di Paolo verso Pietro, primo Papa3.

Quindi S. Pietro non errò contro la Fede, come sostennero erroneamente gli anti-infallibilisti durante il Concilio Vaticano I e come oggi vorrebbero alcuni iper/tradizionalisti per dichiarare eretico il Papa e poterlo deporre, anche se con il suo agire commise un peccato veniale di fragilità a differenza di papa Onorio (come vedremo in appresso), che peccò gravemente senza cader nell’eresia formale, ma solo favorendola per debolezza e negligenza.

Dunque, Pietro peccò solo venialmente e di fragilità, ma, quando Paolo gli resistette in faccia e pubblicamente (Epistola ai Galati, II, 11), Pietro ebbe l’umiltà di correggere il suo errore di comportamento che avrebbe potuto portare all’errore dottrinale dei Giudaizzanti. Non si può negare la resistenza di Paolo a Pietro perché è divinamente Rivelata: “Resistetti in faccia a Cefa, poiché era reprensibile […] alla presenza di tutti” (Galati, II, 11, 14)4.



II - Nestorio (381-431) nega la Maternità divina di Maria

Un altro fatto ampiamente commentato dagli storici della Chiesa è quello avvenuto con Nestorio, patriarca di Costantinopoli, circa 350 anni dopo l’incidente di Antiochia.

Dom Guéranger scrive:

«Il giorno di Natale del 428, Nestorio dall'alto del soglio episcopale, lanciò quella blasfema parola: "Maria non ha generato Dio, il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità". A queste parole la moltitudine fremette inorridita: interprete della generale indignazione, Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l'empietà. [...] Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l'elogio dei Concili e dei Papi!» (Dom Prospero Guéranger, L’anno liturgico, trad. it., Edizione Paoline, Alba, 1959, vol. I, pp. 795-796; rist., Verona, Fede & Cultura).



Come comportarsi in casi analoghi?

Dom Guéranger enuncia un principio generale: «Quando il Pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi. Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede i loro capi. Ma nel tesoro della Rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni Cristiano, per il fatto stesso che è Cristiano, deve avere la necessaria conoscenza e la dovuta custodia5. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio, le “eccesive prudenze” simili a quelle di S. Pietro ad Antiochia non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni Pastori eccezionalmente tacciano, per un motivo o per l'altro, in talune circostanze in cui la stessa religione verrebbe ad essere coinvolta. In tali congiunture, i veri fedeli sono quelli che attingono solo nel loro Battesimo l'ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono per aderire al nemico o per opporre alle sue imprese un programma che non è affatto necessario e che non si deve dare loro». (Ivi).



Non invertire mezzo e fine

S. Tommaso d’Aquino nella sua Somma Teologica (I-II, qq. 1-16), seguìto da Sant’Ignazio da Loyola nei suoi Esercizi Spirituali (n. 23) e ripreso dal Catechismo di San Pio X (n. 15) insegnano che l’uomo è stato creato per conoscere, amare e servire Dio (fine prossimo) e mediante ciò dar gloria al Signore e salvare la sua anima (fine ultimo). Perciò tutte le creature (mezzi) sono state fatte da Dio per aiutare l’uomo a conseguire il suo fine. Quindi, “l’uomo deve usare le creature (mezzi) tanto quanto lo aiutano a conseguire il fine, né più né meno”. Il peccato consiste proprio nel preferire la creatura o il mezzo al Creatore o al fine (S. Th., I-II, qq. 71-73). Insomma il mezzo è un puro strumento per giungere allo scopo, come il treno (mezzo) lo si prende per andare a Roma o a Milano (fine) e non per amore del treno in sé.



Incardinatio vel salus animarum?

Si pone tuttavia oggi una questione per i Sacerdoti che vogliono restare fedeli alla Tradizione apostolica, cioè se si debba necessariamente mantenere l’Incardinazione sotto il Vescovo del luogo (mezzo), anche se ciò portasse a dover amministrare l’Eucaristia nelle mani (ledendo il fine, la gloria di Dio e la salvezza delle anime)? oppure a non insegnare più certe verità naturali (per esempio liceità della pena di morte) e rivelate (la Corredenzione di Maria Santissima, che è perlomeno una verità prossima alla Fede) le quali sono diventate scomode o non politicamente corrette, essendo state negate da Bergoglio?

Certamente se, da una parte, il potere di Giurisdizione è realmente distinto da quello dell’Ordine sacro, tuttavia esso dice pur sempre una certa relazione a esso. Infatti, l’Ordine normalmente (ma c’è sempre l’eccezione che conferma la regola) va vissuto nell’Incardinazione giuridica in una Diocesi o in un Ordine religioso. Tra Ordine e Incardinazione vi è una relazione analoga a quella che sussiste tra anima e corpo, tra potere spirituale e temporale, tra mezzo e fine. Quindi, come il corpo deve essere sottomesso e subordinato all’anima, lo Stato alla Chiesa, il bene comune temporale a quello spirituale, il mezzo al fine; così l’Incardinazione deve essere subordinata alla gloria di Dio e alla salvezza delle anime e non viceversa. Infatti, se la mia Incardinazione mi impedisse di poter dar gloria a Dio e di salvare le anime (non potendo più predicare tutta la Verità rivelata: dalla liceità della pena di morte alla Corredenzione di Maria e all’illeceità dell’Idolatria) o mi comandasse di far prendere loro una strada sbagliata (dovendo io obbligare i fedeli a prendere la Eucarestia sulle loro mani), allora dovrei rinunciare pro tempore et in tempore belli seu tyrannidis all’Incardinazione (mezzo) per procurare la salvezza delle anime (fine). Ora il mezzo è ciò che è per il fine (“media sunt ea quae sunt ad finem”). Quindi non si può disgiungere il mezzo dal fine, sotto pena di peccato. Infatti la definizione di peccato è proprio quella di mettere il mezzo al posto del fine, la creatura al posto del Creatore.

Purtroppo il Concilio Vaticano II ha voluto far coincidere creatura e Creatore, uomo e Dio, antropocentrismo e teocentrismo, mezzo e fine. Esso è stato la canonizzazione pastorale del peccato reso virtù, l’inversione del mezzo col fine, la negazione del principio primo della morale, ossia la sinderesi: “malum vitandum, bonum faciendum”. Da esso non poteva non nascere il culto idolatrico del Pachamama. Paolo VI nel Discorso di chiusura del vaticano II (8 dicembre 1965) inneggiò al “Culto dell’uomo”, Giovanni Paolo II nel 1986 (seguìto da Benedetto XVI nel 2006) ad Assisi riunì in preghiera tutte le religiosità di questo mondo, anche quelle immonde e demoniache del vudù ed infine Francesco non ha fatto nulla di sostanzialmente nuovo adorando il Pachamama (2019). Per mantenere l’Incardinazione non mi è moralmente lecito adorare il Pachamama con Bergoglio, il partecipare alle orge idolatriche e pan/ecumeniste di Assisi (1986/2016) con Woytila e Ratzinger, inneggiare al Culto dell’uomo con Montini.

Per quanto riguarda la Giurisdizione del Vescovo e del Papa, essa - come mezzo - tende (governando) come il potere dell’Ordine sacro (santificando) alla salvezza del proprio gregge (fine) e in un certo qual modo continua nel mondo e in particolare nella Diocesi la Redenzione universale di Cristo operata soprattutto mediante il Sacrificio del Calvario, di cui quello della Messa è la riattuazione incruenta.

Perciò il Papa, i Vescovi e i Sacerdoti debbono vivere la loro Giurisdizione/Incardinazione (mezzo) in vista della Santificazione loro e altrui (fine) sotto pena di diventare almeno spiritualmente irrilevanti. Non si può posporre la gloria divina e la salvezza dell’anima all’Incardinazione, se così avvenisse sarebbe come mettere il corpo prima dell’anima, il potere temporale prima di quello spirituale, il mezzo prima del fine, il carro avanti ai buoi. Vi sarebbe insomma un disordine evidente che avrebbe delle conseguenze catastrofiche. Infatti, il disordine produce solo effetti negativi, mai positivi. Dal male non viene di per sé il bene, l’albero cattivo non produce frutti buoni.

Infatti, il potere d’Ordine è un mezzo finalizzato al fine che è la glorificazione di Dio (mediante il Sacrificio della Messa) e la salvezza delle anime (tramite i Sacramenti). Il potere di Giurisdizione è un mezzo diretto a governare i fedeli in ordine alla vita eterna.

Ora se sorgono delle contrarietà tra la Giurisdizione/Incardinazione, ossia il governare e l’essere governati e la salvezza dell’anima propria, quella dei fedeli e la gloria di Dio; se si mantiene la Giurisdizione/Incardinazione solo a condizione di ledere la gloria di Dio e la salvezza delle anime, tramite un insegnamento erroneo (l’incoraggiamento pubblico all’Idolatria; la liceità di amministrare l’Eucarestia ai divorziati risposati che vogliono permanere in tale stato o di amministrarla sacrilegamente spargendo i frammenti dell’Ostia consacrata, nei quali è realmente presente Gesù Cristo) occorre dare il primato e la precedenza alla gloria di Dio, alla salus animarum (fine) e non si può preferire la propria Giurisdizione/Incardinazione (mezzo) alla salvezza delle anime (fine).

Gli Apostoli agirono così, non tenendo conto degli ordini impartiti loro dal Sinedrio, i quali erano “non legge ma corruzione della legge”, mettendo il mezzo al posto del fine. La suprema legge della Chiesa è la salus animarum. Per essa si può perdere temporaneamente uno stato di riconoscimento giuridico, ossia l’Incardinazione nella Diocesi (o la Giurisdizione per un Vescovo ingiustamente rimosso, come avvenne a S. Atanasio durante la crisi ariana e a monsignor Lefebvre durante la crisi postconciliare/montiniana) per poter continuare a dare gloria a Dio (senza profanazione dell’Eucarestia), a salvare le anime (senza dover tacere sulla Rivelazione e sulla Morale).

Se per mantenere l’Incardinazione si rinuncia a professare pubblicamente tutta e integra la Verità rivelata (dogmatica e morale), ci si condanna ad essere sterili spiritualmente, non si predica più tutto il Vangelo di Cristo ma un altro vangelo edulcorato e adattato ai bisogni dell’uomo contemporaneo.

Infatti, siamo Cristiani solo a metà, e quindi Catto/liberali e Modernisti impliciti o anonimi, quando le nostre scelte sono indecise, quando siamo arrendevoli e restii a schierarci, quando temiamo le complicazioni, l’isolamento e la sconfitta momentanea, quando siamo pronti a scendere a compromessi e a dialogare con l’errore e col male, quando non osiamo dire tutta la verità, ma solo delle mezze verità, più nocive dell’errore esplicito.

Pensate se nel IV secolo S. Atanasio per mantenere la sue Sede episcopale avesse taciuto sulla divinità di Gesù e avesse edulcorato la sua “consustanzialità” con il Padre e lo Spirito Santo … ; pensate se nel 1976 monsignor Marcel Lefebvre avesse rinunciato alla lotta contro gli errori modernistici contenuti nel Concilio Vaticano II e nella Riforma liturgica del 1969 …



Che fare?

Monsignor Antonio De Castro Mayer scriveva: “Quando è evidente che una novità si allontana dalla dottrina tradizionale, è certo che non deve essere ammessa” (Lettera pastorale Aggiornamento e Tradizione, 11 aprile 1971, Diocesi di Campos in Brasile).

Quindi siccome la Gerarchia può eccezionalmente errare, in tal caso si può lecitamente resistere ad essa pubblicamente, ma con il rispetto, il garbo e l’equilibrio dovuto al principio d’Autorità.

In questi casi eccezionali, occorre continuare a fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto prima che l’errore e la confusione penetrassero nella quasi totalità dall’ambiente ecclesiastico (S. Vincenzo da Lerino, Commonitorium, III, 5) e credere ciò che la Chiesa ha sempre, ovunque insegnato universalmente (“quod semper, ubique et ab omnibus”).

Il Dottore Angelico, in diverse sue opere, insegna che in casi estremi è lecito resistere pubblicamente ad una decisione papale, come San Paolo resistette in faccia a San Pietro: «Essendovi un pericolo prossimo per la Fede, i Prelati devono essere ripresi, perfino pubblicamente, da parte dei loro soggetti. Così San Paolo, che era soggetto a San Pietro, lo riprese pubblicamente, a motivo di un pericolo imminente di scandalo in materia di Fede. E, come dice il commento di Sant’Agostino, “lo stesso San Pietro diede l’esempio a coloro che governano, affinché essi, se mai si allontanassero dalla retta strada, non rifiutino come indebita una correzione venuta anche dai loro soggetti” (ad Gal. 2, 14)»6.

Francisco De Vitoria scrive: «Secondo la legge naturale è lecito respingere la violenza con la violenza. Ora, con ordini e dispense abusive, il Papa esercita una violenza, perché agisce contro la legge. Quindi, è lecito resistergli. Come osserva il Gaetano, non facciamo questa affermazione perché qualcuno abbia diritto di giudicare penalmente il Papa o abbia autorità giuridica su di lui, ma perché è lecito difendersi. Chiunque, infatti, ha il diritto di resistere a un atto ingiusto, di cercare di impedirlo e di difendersi»7.

Francisco Suarez: «Se [il Prelato] emana un ordine contrario ai buoni costumi, non gli si deve ubbidire: se tenta di fare qualcosa di manifestamente contrario alla giustizia e al bene comune, sarà lecito resistergli; se attaccherà con la forza, potrà essere respinto con la forza, con quella moderazione propria della legittima difesa»8.

Infine San Roberto Bellarmino scrive: «Com’è lecito resistere al Pontefice che aggredisce il corpo, così pure è lecito resistere a quello che aggredisce le anime o perturba l’ordine civile, o, soprattutto, a quello che tenta di distruggere la Chiesa. Dico che è lecito resistergli non facendo quello che ordina e impedendo l’esecuzione della sua volontà: non è però lecito giudicarlo, punirlo e deporlo, poiché questi atti sono propri di un superiore»9 e l’unico superiore del Papa è Gesù Cristo, non l’Episcopato o il Collegio cardinalizio.



Conclusione

Ebbene oggi è proprio come ai tempi dell’Arianesimo, per mantenere la Giurisdizione sulla propria Diocesi o l’Incardinazione in essa, ci si vede costretti a profanare l’Eucarestia, a non predicare tutta la verità, ad ometterne una parte o anche a negarla almeno implicitamente, ossia per omissione. Quindi per salvarsi l’anima occorre dar gloria a Dio e salvare le anime del gregge che ci viene affidato, non per essere consegnato al lupo, non solo fuggendo ma anche solo tacendo. Perciò non ci resta che da concludere con San Giovanni Bosco: “Salve, salvando salvati!”.



Dalla rivista sì sì no no

1 D. Th. C., vol. 29, col. 1952.

2 «La frase “era reprensibile” (della Vulgata) da alcuni esegeti è tradotta […] “messo dalla parte del torto”. È spiegato il fallo o il torto di Pietro, fallo definito con ogni precisione già da Tertulliano come sbaglio di comportamento non di dottrina” (De praescriptione haereticorum, XXIII)» (G. Ricciotti, Le Lettere di S. Paolo, Coletti, Roma, 1949, 3ª ed., pp. 227-228).

3 È vero che secondo Tertulliano il peccato di Pietro fu uno “sbaglio di comportamento non di dottrina” (De praescr. haeret., XXIII). Tuttavia “Per S. Agostino Pietro commise un peccato veniale di fragilità, preoccupandosi troppo di non dispiacere ai giudei convertiti al Cristianesimo ...” (J. Tonneau, Commentaire à la Somme Théologique, Cerf, Paris, 1971, p. 334-335, nota 51, S. Th., III, q. 103, a.4, sol. 2). Secondo S. Tommaso d’Aquino “sembra che Pietro sia colpevole di uno scandalo attivo” (Somma Teologica, III, q. 103, a.4, ad 2). Inoltre l’Angelico specifica che Pietro ha commesso un peccato veniale non di proposito deliberato ma di fragilità (cfr. Quest. disput., De Veritate, q. 24, a. 9; Quest. Disput., De malo, q. 7, a. 7, ad 8um) per un'eccessiva prudenza nel non voler contrariare i giudei convertiti al Cristianesimo.

4 Cfr. Arnaldo Xavier Vidigal Da Silveira, Qual è l’autorità dottrinale dei documenti pontifici e conciliari?, “Cristianità”, n. 9, 1975; Id., È lecita la resistenza a decisioni dell’Autorità ecclesiastica?, “Cristianità”, n. 10, 1975; Id., Può esservi l’errore nei documenti del Magistero ecclesiastico?, “Cristianità”, n. 13, 1975.

5 Si pensi all’attuale linea pastorale 1°) riguardo alla morale (papa Francesco / card. Walter Kasper), che vorrebbe concedere i Sacramenti ai peccatori ostinati nel peccato, che non vogliono correggersi e pretendono di ricevere egualmente i Sacramenti. Ogni Cristiano che ha studiato il Catechismo sa che secondo la Legge divina ciò non è possibile. Quindi deve prendere posizione contro tale linea da qualsiasi parte venga. 2°) Dal punto di vista dogmatico si pensi alle novità della Collegialità episcopale (Lumen gentium), del pan/ecumenismo (Unitatis redintegratio, Nostra aetate), delle due fonti della Rivelazione ridotte ad una: la “sola Scrittura” (Dei Verbum), del pan/cristismo teilhardiano (Gaudium et spes), della libertà delle false religioni (Dignitatis humanae). 3°) Dal punto di vista liturgico si pensi al Novus Ordo Missae del 1968, che “si allontana in maniera impressionante dalla teologia cattolica sul Sacrificio della Messa come fu definita dal Concilio di Trento” (card. Alfredo Ottaviani - Antonio Bacci, Lettera di presentazione a Paolo VI del Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae). Questi son casi in cui è lecito e doveroso sospendere l’assenso alle decisioni novatrici del magistero pastorale o non infallibile del Concilio Vaticano II e del post-concilio.

6 San Tommaso d’Aquino, Summa Theologie, II-II , q. 33, a. 4, ad 2.

7 Franciscus De Vitoria, Obras de Francisco de Vitoria, BAC, Madrid 1960, pp. 486-487.

8 Franciscus Suarez, De Fide, in Opera omnia, cit., Parigi 1858, tomo XII, disp. X, sect. VI, n. 16.

9 San Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, in Opera omnia, Battezzati, Milano 1857, vol. I, lib. II, c. 29.








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