Cambiamenti Climatici
04 luglio 2022

L'EMERGENZA CLIMATICA CHE NON C'È

Riprendiamo questo documento dal sito di CALABRIA.LIVE dedicato ai cambiamenti climatici.

AMBIENTE CLIMA TERRITORIO

Questo speciale affronta il tema tanto dibattuto dei cosiddetti cambiamenti climatici antropici. Oltre all’introduzione del prof. Alberto Prestininzi, geologo, già docente alla Sapienza di Roma, contiene tre importanti contributi. La prima di carattere economico, scritta dal Prof. Mario Giaccio, già Preside della Facoltà di Economia dell’Università di Pescara; la seconda scritta dal prof. Nicola Scafetta, Professore di Fisica dell’atmosfera e climatologia dell’Università Federico II di Napoli; la terza, elaborata dall’ingegnere minerario Giovanni Brussato, autore del libro di successo “Energia verde? Prepariamoci a scavare”. I tre articoli mettono in evidenza, rispettivamente, gli interessi politico-finanziarie che “muovono” le iniziative su questo tema; le ragioni scientifiche naturali-planetarie che controllano il Clima, come il sole e, infine, l’illusione di poter raggiungere la transizione energetica attraverso l’energia rinnovabile eolica e solare. (a cura di Alberto Prestininzi e Santo Strati)




LE VARIAZIONI DEL CLIMA

Dall’emergenza alla conoscenza

di ALBERTO PRESTININZI

(Già Direttore del Centro di Ricerca CERI e Ordinario di Rischi Geologici, Università Sapienza di Roma. Attuale Docente di Analisi del Rischio, Università eCampus)


E’molto probabile che i contenuti di questo Speciale creeranno sgomento o, addirittura, avversione soprattutto da parte dei giovani, non di tutti, per fortuna. I giovani che rappresentano la porta che deve garantire un futuro migliore. Ma qualcuno sta pensando di tenere ben chiusa questa porta, utilizzando sistemi sicuri e inviolabili. La generazione passata, alla quale è stato “assegnato” il compito di vivere il primo dopoguerra, conosce molto bene il valore della porta del futuro e il suo ruolo vitale. Per questo cercano di tenere ben aperta la porta del futuro, per consentire all’aria vitale che l’attraversa di nutrire quello che noi chiamiamo il cibo del pensiero, ovvero l’informazione libera, multipla, articolata che nasce e cresce, anche, e soprattutto, attraverso il confronto aperto portato avanti con argomenti e tesi, spesso ferocemente contrapposte. Oggi viene proposto dal sistema di comunicazione, con offerta a buon mercato, il pensiero unico, monotematico, senza confronto ma propinato da “esperti” accuratamente selezionati e pronto per l’uso. Una delle prove generali, ben riuscita, è costituita dai milioni di ragazzi, turlupinati e inconsapevoli vittime, scesi per scioperare a favore del Clima a fianco della giovane Greta Thumberg: selezionata, costruita e veicolata da chi vuole a tutti i costi tenere chiusa la porta del futuro (contro chi hanno scioperato questi giovani? non si capisce, visto che il Ministro della Pubblica Istruzione, quasi tutti gli Insegnanti, il Governo e i vertici dei governi occidentali, compresa l’UE, erano i promotori dello sciopero) (Vedi A. Prestininzi- Il rapporto tra Scienza e Comunicazione- (puoi leggerlo qui). È in tale contesto che si colloca lo sgomento e la reazione dei giovani alle notizie ed alle comunicazioni che si discostano da quelle “impartite e imparate a memoria” da Tv e giornali, in primo luogo. Ma financo dai documentari, spesso diffusi con l’etichetta “scientifica” e che unanimi annunciano la morte del Pianeta, lanciando informazioni subliminali. La tecnica è collaudata, gli stessi media sono pronti ad indicare come false, o non scientifiche, tutto ciò che è in dissonanza con il mainstream. Per sostenere questo tipo di perplessità sono in genere forniti vocaboli ad hoc, spregevoli ma di immediato uso e getta, come negazionista, il cui vero e duro significato è noto alle passate generazioni, le quali i campi di concentramento nazisti li hanno vissuti e subiti. Questa nostra breve premessa è stimolata dai decenni di docenza e rapporti con i giovani, i quali spesso palesano questa iniziale reazione ma che, poi, la prolungata interazione e il dialogo fa emergere in loro tutta la potenzialità del loro libero pensiero, unica speranza per il futuro. Dal Club di Roma all’isteria del Cambiamenti climatico La versione ufficiale che si tramanda attraverso documenti e cronache ha sempre sostenuto che il primo incontro promosso da Aurelio Peccei nell’aprile 1968, insieme a scienziati, leader politici e intellettuali, si è tenuto presso l’Accademia dei Lincei di Roma. Da qui, il nome Club di Roma. Il tema dell’incontro era centrato su un documento elaborato da Alexander King, scienziato scozzese, di chiara ispirazione Malthusiana, sui “problemi globali” connessi alla sostenibilità del nostro pianeta nel poter garantire le risorse energetiche necessarie al crescente aumento della sua popolazione. Nonostante l’ipotesi formulata non abbia avuto molto successo, Il Club di Roma ha pubblicato nel 1972 il documento I Limiti dello Sviluppo (The Limits to Growth) di Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers, William W, noto come Rapporto Meadows. Le attività del gruppo di lavoro furono sviluppate con il coinvolgimento del MIT di Boston (Massachusetts Institute of Technology) e portarono alla simulazione, su una finestra temporale di cento anni, di uno scenario che avrebbe condotto il pianeta “Al raggiungimento dell’umanità dei limiti naturali dello sviluppo a causa del previsto, e temuto, declino del livello di popolazione e del sistema industriale, soprattutto per l’impossibilità di garantire risorse energetiche sufficienti”. Al riguardo dobbiamo registrare che, a partire dal dopoguerra la popolazione mondiale è passata da circa 3 a 8 miliardi di individui (gennaio 2022). Nello stesso intervallo di tempo il livello di sottonutriti della popolazione mondiale è passato, dal 50% del 1945 al 9% circa del 2020, come mostra il grafico della figura 1, tratto da dati ufficiali. I fatti, quindi, hanno dimostrato che la pur legittima ipotesi iniziale del Club di Roma e del MIT era errata. In questo contesto dobbiamo, giocoforza, ricordare che il mondo scientifico, sotto la spinta di Galileo, ha assunto come elemento guida Il Metodo Scientifico-sperimentale che permette di confermare, o smentire, le ipotesi predittive che via via sono formulate dal mondo scientifico per interpretare l’evoluzione di certi fenomeni. In linea con tale Metodo, la comunità scientifica utilizza i principi galileiani per stimare la validità delle ipotesi predittive attraverso il confronto con i “fatti”, ovvero con quanto realmente si registra nell’intervallo di tempo assunto dalle ipotesi predittive. Solo i fatti, quindi, consentono di trasformare una ipotesi predittiva in un modello scientifico significativo. L’assenza di queste condizioni confina le ipotesi predittive in legittime basi di ricerca e di lavoro, ma non li assume come elementi idonei che consentano di assumere decisioni politiche ed economiche. Ma, negli ultimi decenni, stiamo assistendo allo stravolgimento di questo paradigma, con l’assunzione di fondamentali decisioni politiche-economiche sulla base di ipotesi, portate avanti con modelli costruiti al computer anche quando i fatti mostrano la loro inconsistenza scientifica. Tra l’altro, si tratta di decisioni che, nel nostro paese, calpestano il lavoro dei Padri Costituenti e consentono di perpetrare grandi ingiustizie nei confronti delle inconsapevoli popolazioni. Considerando il tema dei cosiddetti “Cambiamenti Climatici antropici”, gestito e orchestrato a livello planetario da coloro che si nascondono sotto la coperta dei Malthusiani, avendo ereditato abusivamente il marchio Club di Roma, emerge come questo tema abbia tutti i requisiti per essere considerato un perfetto esempio di una deriva autoritaria. Aurelio Peccei e il Club di Roma erano partiti dalla ipotesi che le fonti di energia fossile fossero ormai sulla soglia dell’esaurimento (i meno giovani ricordano gli anni ‘70, quando c’è stata la messa al bando della circolazione domenicale dei veicoli). I novelli Malthusiani hanno utilizzato la legittima ma errata previsione del Club di Roma, come password per promuovere quella che Ivar Giaever, Fisico- Premio Nobel per la fisica nel 1973, ha chiamato Il riscaldamento globale è la più grande e riuscita frode pseudoscientifica che abbia mai visto nella mia lunga carriera di fisico. Questa consapevolezza ha portato di recente oltre mille scienziati nel mondo a scrivere la Dichiarazione There is no Climate emergency (https://Clintel.org), inviata al Segretario delle Nazioni Unite e alla Commisisone UE. La più grande truffa scientifica, dunque, confermata dal nostro premio Nobel Carlo Rubbia in un intervento al Senato della Repubblica il 24 settembre 2014 (vedi qui). Tutto questo ripete esattamente la profezia sulla carenza di risorse alimentari e la necessità di ridurre drasticamente la popolazione, attraverso il continuo martellamento dei media sulla salvezza del pianeta attraverso la decarbonizzazione. La CO2 presente in atmosfera è il cibo delle piante. Senza questo gas la vita sulla terra non sarebbe possibile. Come è stato dimostrato dallo studio delle Stromatoliti, sviluppate 3,7 miliardi di anni fa, le quali attraverso la fotosintesi, generata da attività dei cianobatteri, ha dato il via al meraviglioso ciclo del Carbonio e alla sintesi degli zuccheri che rappresentano, oggi, l’attività della fotosintesi che sostiene la vita sul nostro pianeta. L’incremento di temperatura, attribuita alle emissioni antropiche di CO2 è una ipotesi legittima, ma come l’ipotesi formulata dal Club di Roma, non ha trovato conferma nei fatti. Solo i modelli predittivi vengono esposti come prova di questa ipotesi. I numerosissimi modelli formulati sono totalmente incapaci di simulare le variazioni climatiche del passato. Si tratta dunque di modelli non significativi e quindi privi di qualsiasi valenza scientifica. Basta leggere ciò che è avvenuto nel passato geologico del nostro pianeta per verificare come il clima ha subito periodi e cicli continui di variazione climatiche, totalmente sconnessi dalla presenza della CO2. I dati recenti del periodo medievale, o dell’intervallo 1500-1750 d.C., caratterizzati, rispettivamente, da un ciclo caldo e da uno freddo (la piccola glaciazione). Tornare al periodo romano per constatare che la temperatura era maggiore di quella odierna, come mostrano ricerche sperimentali di elevato valore scientifico che mostrano come le acque del mediterranea arano più caldi di quelle odierne di circa 2° C (Figura 2). Persistent warm Mediterranean surface waters during the Roman period (2020). G. Margaritelli, I. Cacho, A. Català, M. Barra, L. G. Bellucci, C. Lubritto, R. Rettori & F. Lirer. Scientific Reports volume 10, Article number: 10431. Cosa è accaduto in questo periodo? L’Impero di Roma ha conosciuto la sua massima espansione territoriale, culturale e di benessere. La contrazione, e l’avvio della sua caduta, coincide con il freddo e l’abbassamento delle temperature, quando il Nord Europa e la Groenlandia diventarono inospitali e grandi masse di popolazioni si sono riversate verso Sud alla conquista di Roma. Le comunità costruite dall’uomo temono il freddo, non il caldo. Nessun modello predittivo, costruito a supporto della narrazione sulla responsabilità dell’umo, ha trovato conferma dai fatti. Quindi questa ipotesi non è supportata dai fatti e non assume quindi il rango di “verità scientifica”. La petizione fatta dagli scienziati fa emergere la responsabilità dell’Uomo per i processi di inquinamento del pianeta (suolo, acqua e aria). Ma l’inquinamento non ha nulla a che spartire con il clima, che è sempre mutato e continuerà a mutare per cicli naturali, soprattutto astronomi ci e planetari. Al riguardo, una interessante riflessione è stata fatta dalla professoressa Augusta Vittoria Cerutti, già docente di Geografia presso l’Università di Torino, quando parla dei ghiacciai alpini. Nei suoi lavori esamina la condizione della cosiddetta mummia di Otzi, la mummia del ghiacciaio di Similaun in Trentino Alto Adige risalente a circa 5000 anni fa, ritrovata l’11 settembre 1991 da una coppia di coniugi tedeschi. La mummia di Otzi, come viene chiamata, si è potuta formare perché le condizioni climatiche di 5000 anni fa erano totalmente diverse a 3500 metri s.l.m.. Il processo di mummificazione ha bisogno di un clima secco, ventilato. La presenza del ghiacciaio avrebbe impedito la mummificazione. Successivamente si è formato il ghiacciaio che ha conservato Otzi sino ai nostri giorni. Ancora una volta la scienza mostra che il clima è cambiato per ragioni naturali.

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INTERPRETARE i cambiamenti climatici

di NICOLA SCAFETTA

(Professore di Fisica dell’Atmosfera, Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse, Università degli Studi di Napoli Federico II)


Molteplici evidenze geologiche e meteorologiche suggeriscono che la superfice del pianeta si sia riscaldata in media di poco meno di 1 °C dal cosiddetto periodo preindustriale, cioè dal 1850-1900 (IPCC, 2021). Tuttavia, quasi nessun altro argomento nelle scienze del clima è controverso come l’effetto che le variazioni dell’attività del Sole hanno avuto sul clima. Qui vorrei principalmente riassumere le conclusioni raggiunte da un gruppo di 23 esperti mondiali nei campi della fisica solare e delle scienze del clima provenienti da 14 paesi diversi, a cui ho contribuito, sintetizzando i risultati di 544 pubblicazioni scientifiche sull’argomento (Connolly et al., 2021). Prima, però, è necessario inquadrare il problema. Negli ultimi decenni il riscaldamento globale è divenuto di pubblico interesse perché i cambiamenti climatici, e soprattutto quelli di una certa rilevanza, possono avere importanti ricadute socioeconomiche. Un organismo delle Nazioni Unite – l’Intergovernmental Panel on Climate Change, (IPCC) – ha lo scopo di informare le varie nazioni sullo stato attuale della Scienza sui Cambiamenti Climatici. L’ultimo rapporto è del 2021 (IPCC, 2021). I cambiamenti climatici possono avere conseguenze socioeconomiche positive o negative a seconda del luogo; ad esempio, alcune regioni potrebbero diventare più verdi, mentre altre potrebbero diventare più desertiche, ed altro. Tuttavia, la tesi prevalente tra gli esperti è che, se il riscaldamento globale dovesse superare nei prossimi decenni gli 1.5-2.0 °C rispetto al 1850-1900, su una scala globale le conseguenze negative dei cambiamenti climatici dovrebbero eccedere quelle positive. Si ritiene, tuttavia, che lo stato attuale sia di “emergenza climatica” perché delle previsioni climatiche basate su modelli teorici suggeriscono che la soglia dei 2.0 °C potrebbe essere superata entro il 2050 e che, quindi, ci sarebbe l’urgenza di adottare politiche globali di mitigazione climatica finalizzate a invertire o almeno rallentare i cambiamenti climatici in atto (IPCC, 2018, 2021). Tuttavia, le politiche di mitigazione climatica sono molto costose anche perché interferiscono direttamente con la produzione energetica che oggi è prevalentemente basata sui combustibili fossili. Infatti, la tesi prevalente è che il riscaldamento globale sarebbe stato indotto principalmente dalle emissioni antropiche dei gas-serra atmosferici come l’anidride carbonica (CO2 ) indotte dall’uso del carbone, del metano e dai vari derivati del petrolio. L’uso dei combustibili fossili andrebbe immediatamente limitato e possibilmente azzerato per il 2050 per “salvare il pianeta”. Tale conclusione, però, deriva unicamente da alcune simulazioni climatiche eseguite da programmi computerizzati piuttosto complessi ma ancora inadeguati. L’ultima generazione di questi modelli climatici globali (GCM) è stata resa disponibile dal Coupled Model Intercomparison Project ed è indicata con la sigla CMIP6 GCM. Il problema principale di questi modelli, come anche dimostrato in alcuni miei studi, è che sono molto diversi tra di loro e sono piuttosto grossolani nel riprodurre gli andamenti dinamici osservati nel clima (Scafetta, 2013, 2021c, 2022). Ad esempio, la sensibilità climatica all’equilibrio (ECS) - cioè il riscaldamento globale teorico che il raddoppio della concentrazione di CO2 atmosferico da 280 a 560 ppm potrebbe indurre all’equilibrio termodinamico – varia da circa 1.8 a 6 °C a seconda del GCM scelto (IPCC, 2021). Questa grande incertezza implica che per il periodo 2040-2060, i CMIP6 GCM predicono un riscaldamento che varia tra circa 1.5 a 4.0 °C rispetto al 1850-1900. Tuttavia, un diretto confronto con i dati climatici dal 1980 al 2021 suggerisce una compatibilità con le osservazioni molto scarsa in generale insieme a una sovrastima del riscaldamento osservato. La situazione migliora solo per i modelli con una ECS bassa – ad esempio minore di 3 °C – che però predicono un modesto riscaldamento futuro (Scafetta, 2021a) [Vedi figura 1]. Quindi, da una parte i modelli climatici non sono consistenti nello stabilire o meno se una vera emergenza climatica esiste per davvero, e dall’altra che, in ogni caso, solo i modelli meno allarmistici, cioè quelli con una bassa ECS, potrebbero al più essere presi in considerazione. Tuttavia, anche quest’ultimi risultati teorici appaiono eccessivi in quanto parzialmente contraddetti da diversi risultati empirici che suggeriscono valori dell’ECS ancora più bassi, da 0.5 a 2.5 °C (Scafetta 2013; Lewis and Curry, 2018; Knutti et al., 2017). L’incertezza fisica è dovuta principalmente alla difficoltà in modellare la copertura nuvolosa i vari feedback relativi al ciclo dell’acqua. L’incertezza relativa alla sensibilità climaticaall’aumento della CO2 atmosferica dovrebbe essere risolta o ridotta prima di usare questi modelli per determinare le politiche energetiche. Tuttavia, a questa incertezza si aggiungono altre due incertezze in grado di ridurre ulteriormente il valore della ECS del sistema climatico. L’argomento è dettagliato in Connolly et al. (2021). Un primo problema riguarda l’accuratezza dei record climatici che sono usati per stimare il riscaldamento climatico globale. Infatti, un’attenta analisi dei dati suggerisce il seguente: 1) che sebbene le superfici terrestri si devono riscaldare più velocemente di quelle oceaniche, i dati suggeriscono che il riscaldamento dei continenti rispetto all’oceano è eccessivo rispetto alle previsioni teoriche; 2) usando solo dati climatici misurati dai satelliti oppure in stazioni rurali (cioè escludendo quelle in prossimità dei centri urbani) il riscaldamento globale potrebbe essere inferiore di quello riportato da un 5% al 20% (Scafetta, 2021b; Connolly et al., 2021). Questo implica una ulteriore sovrastima dei GCM per quanto riguarda il riscaldamento teorico che un aumento di CO2 potrebbe indurre. Il secondo problema riguarda proprio l’effetto del sole sul clima. Infatti, le simulazioni dei modelli CMIP6 si basano su una ricostruzione del forzante radiativo solare che mostra una variabilità secolare molto piccola (Matthes et al., 2017). Tuttavia, la letteratura scientifica propone delle ricostruzioni dell’evoluzione dell’irraggiamento solare con una variabilità secolare fino a 5-10 volte superiore (Hoyt and Schatten, 1993; Egorova et al., 2018; Scafetta et al., 2019). Inoltre, un attento confronto con i dati satellitari (disponibili sin dal 1979) suggerisce una loro incompatibilità con le ricostruzioni solari mostranti una bassa variabilità secolare (Scafetta et al., 2019). Quindi, i GCM potrebbero ulteriormente sottostimare l’effetto climatico indotto dall’aumento dell’attività solare indicato da queste ricostruzioni ed osservato dal 1850 ad oggi (Connolly et al., 2021). Ovviamente, se il riscaldamento globale è sovrastimato e il contributo solare sottostimato dai GCM si dovrebbe dedurre che l’effetto riscaldante dell’aumento atmosferico della CO2 dal 1850 ad oggi potrebbe essere piuttosto basso con una ECS intorno a 1.5 °C o più bassa come stimato in Scafetta (2013). Quindi, considerando le varie ipotesi discusse nella letteratura scientifica, Connolly et al. (2021) concludono che il possibile contributo del sole al riscaldamento globale del XX secolo dipende in larga misura dalle specifiche ricostruzioni solari e climatiche adottate per l’analisi. Si va da un estremo in cui l’uomo domina i cambiamenti climatici dell’ultimo secolo ad un altro estremo in cui è il sole il fattore dominante. La questione è cruciale perché l’attuale tesi dell’IPCC (2021) secondo cui il riscaldamento climatico post-industriale sarebbe dovuto solo ed esclusivamente all’uomo e non anche al sole si basa solo sulle previsioni dei suddetti GCM, basate su forzanti solari ambigui e che sono anche confrontate con dei record climatici influenzati da distorsioni climatiche come quelle relative all’urbanizzazione che fa apparire il riscaldamento maggiore di quello che presumibilmente è stato. In realtà, una notevole letteratura scientifica suggerisce che la variabilità solare ha un forte influsso sul clima della Terra sia direttamente, attraverso variazioni dell’irraggiamento, che indirettamente per mezzo di una modulazione dei forzanti corpuscolari (come i raggi cosmici) che direttamente influenzano la copertura nuvolosa ed altri meccanismi. Qui non è possibile discutere in dettaglio questi dati ma il lettore interessato può studiare la letteratura citata (Connolly et al., 2021). Ad esempio, la Figura 2 mostra l’esistenza di una notevole correlazione tra una ricostruzione dell’attività solare (Steinhilber et al., 2012) e una ricostruzione della variazione climatica degli ultimi 2000 anni (Ljungqvist, 2010). Si notano periodi caldi con una cadenza millenaria (Periodo Caldo Romano, Periodo Caldo Medioevale e Periodo Caldo Contemporaneo) in corrispondenza con i periodi di più elevata attività solare e periodi freddi (i Secoli Bui, e la Piccola Era Glaciale) in corrispondenza con i periodi di minore attività solare. Tuttavia, le ricostruzioni modellistiche dell’ultimo millennio non riproducono, ad esempio, il riscaldamento medioevale dimostrando così di non avere i meccanismi e neppure i forzanti corretti per interpretare le variazioni climatiche naturali come, per l’appunto, i prolungati periodi di riscaldamento, incluso quello osservato dal 1850-1900 a oggi (Scafetta, 2021c). Infatti, le sequenze climatiche appaiono strettamente correlate a quelle solari per millenni (es: Kerr, 2001; Neff et al., 2001; Scafetta, 2009, 2013, 2021c; Steinhilber et al., 2012 e molti altri). L’origine astronomica delle variazioni climatiche deriva dal fatto che queste appaiono caratterizzate da tutta un serie di oscillazioni che appaiono o nelle serie solari o tra quelle mareali. Queste analisi sono state introdotte ad esempio in Scafetta (2010, 2013). Riassumiamo ora i principali risultati relativi al record della temperatura superficiale globale dal 1850 al 2021. Ai cicli decennali e multi-decennali si aggiungono dei cicli secolari e millenari. Le Figure 3A e 3B confrontano le analisi tempo-frequenza tra la velocità del Sole rispetto al centro di massa del sistema solare e le registrazioni della superficie globale di HadCRUT (Scafetta, 2014). Il record astronomico è stato scelto perché contiene le principali oscillazioni astronomiche del sistema solare. Dal confronto, si vede che le oscillazioni della temperatura superficiale globale imitano diversi cicli astronomici dalle scale decennali a quelle multi-decennali, come notato per la prima volta in Scafetta (2010). I periodi astronomici principali riscontrati nella velocità del Sole (Figura 3A) sono a circa 5.93, 6.62, 7.42, 9.93, 11.86, 13.8, 20 e 60 anni. La maggior parte di essi sono legati alle orbite di Giove e Saturno. I periodi principali in cui è stato rilevato il record di temperatura (Figura 3B) sono a circa 5.93, 6.62, 7.42, 9.1, 10.4, 13.8, 20 e 60 anni. Come si vede, la maggior parte dei periodi di temperatura coincidono con quelli dell’oscillazione solare, con l’eccezione dei cicli di 9.1 e 10.4 anni. Il periodo di 9.1 anni manca tra le principali frequenze planetarie mostrate nella Figura 3A. Scafetta (2010) ha tuttavia notato che questa oscillazione è probabilmente legata a una combinazione tra il periodo di rotazione della linea absidale lunare di 8.85 anni, la prima armonica dell’eclissi di Saros di 9 anni ciclo e la prima armonica di 9.3 anni del ciclo nodale soli-lunare. Questi tre cicli lunari dovrebbero indurre maree oceaniche equivalenti con un periodo medio di circa 9.1 anni che potrebbero influenzare il sistema climatico modulando la circolazione dell’oceano e dell’atmosfera. Il ciclo di temperatura di 10.4 anni è variabile perché è l’impronta del ciclo solare di 11 anni che varia tra il ciclo mareale di Giove-Saturno (9.93 anni) e quello legato al periodo orbitale di Giove (11.86 anni). Si noti che nella Figura 3B, la frequenza del segnale di temperatura aumenta nel tempo dal 1900 al 2000. Ciò concorda con il ciclo solare leggermente più lungo (e più piccolo) all’inizio del XX secolo e più corto (e più grande) alla sua fine. Questi risultati sono stati usati per lo sviluppo di un modello climatico semi-empirico basato sui diversi cicli astronomicamente identificati. Il modello originale includeva il ciclo soli-lunare di 9.1 anni, i cicli astronomico-solare di 10.5, 20, 60, 115 anni e un ciclo asimmetrico di 981 anni che presenta un minimo intorno a 1700 (il Grande Minimo solare di Maunder) e massimi nel 1080 e nel 2060. Il modello è stato completato aggiungendo gli effetti vulcanici e le componenti antropiche dedotte dalla previsione media dell’insieme dei modelli di circolazione globale CMIP5 dove è stata ipotizzata una sensibilità climatica all’equilibrio dimezzata (ECS) al forzante radiativo. L’ipotesi di una ECS ridotta a circa 1.5°C dalla media del modello di circa 3°C è stata necessaria perché le oscillazioni decennale naturali individuate ricostruiscono già almeno il 50% del riscaldamento osservato dal 1970 al 2000. Infine, lo stesso modello è stato implementato con i cicli climatici di frequenza più alta (Scafetta, 2021c). I risultati sono illustrati nelle Figure 3C e 3D. Il pannello C mostra il record della temperatura superficiale globale di HadCRUT (Morice et al., 2012) rispetto alle simulazioni medie dell’insieme prodotte dai modelli di circolazione globale CMIP6 utilizzando i forzanti storici (1850-2014) continuata con tre diversi scenari di percorsi socioeconomici (SSP) (2015-2100) (Eyring et al., 2016). Il pannello 3D mostra lo stesso record di temperatura rispetto al modello armonico semiempirico proposto nelle stesse condizioni di forzatura climatica. Il confronto tra i pannelli 3C e 3D mostra che il modello armonico semiempirico ha prestazioni significativamente superiori rispetto a quelle dei modelli CMIP6. Inoltre, usando i modelli CMIP6 la soglia di riscaldamento di 2°C verrebbe superata già nel 2035-2045 (Figura 3C), il che conferma che l’attuale allarmismo climatico (sostenuto dall’IPCC e da attivisti politici come Albert Arnold Gore, Greta Thunberg e molti altri) si basa sulle simulazioni climatiche di questi modelli. Al contrario il modello astronomico semi-empirico prevede un riscaldamento moderato per i decenni futuri, come dimostrato in dettaglio da Scafetta (2013, 2021c). E contraddice l’allarmismo climatico contemporaneo. In conclusione, i modelli CMIP6 utilizzati per le previsioni future promosse anche dall’IPCC e la selezione dei dati solari e climatici usati per tali simulazioni e per la loro validazione fanno sì che la componente naturale del cambiamento climatico (come quella indotta dal sole) sia minimizzata mentre, al contempo, quella antropica è massimizzata. Una analisi inadeguata delle incertezze presenti nella letteratura a sfavore della variabilità climatica naturale genera un’artificiale emergenza climatica come risulta dalla Figura 3C. Al contrario, un maggiore impatto della variabilità naturale implica che la vera sensibilità climatica all’aumento della CO2 è bassa. Conseguentemente, nei prossimi decenni il riscaldamento climatico aspettato dovrebbe essere moderato (Scafetta, 2013; Scafetta, 2021a). Questa eventualità implica anche che le politiche di adattamento climatico dovrebbero essere sufficienti per affrontare eventuali problemi che potrebbero sorgere a livello regionale e che, in ogni caso, le politiche di mitigazione climatica potrebbero avere solo modestissimi risultati in quanto il clima continuerebbe ad essere determinato in modo non trascurabile dall’attività solare e da vari cicli naturali.


Riferimenti bibliografici Connolly, R., et al.: 2021. How much has the Sun influenced Northern Hemisphere temperature trends? An ongoing debate. (Invited Review). Research in Astronomy and Astrophysics 2021, 21, 131 (68pp). Egorova T., et al.: 2018. Revised historical solar irradiance forcing. Astronomy & Astrophysics 615, A85.

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UNA TRANSIZIONE che non è rinnovabile

di GIOVANNI BRUSSATO

(Ingegnere Minerario. Consulente scientifico degli Amici della Terra Onlus ed autore del Libro “Energia verde? Prepariamoci a scavare”)


Quando si parla di transizione verde è opportuno tenere ben presente che l’European Green Deal è una transizione energetica fondata sui metalli, per quanto il Segretario generale delle Nazioni Unite dal palco della COP26 a Glasgow affermasse: «Basta con l’estrazione mineraria... stiamo scavando le nostre tombe». In realtà quello che si sta pianificando è di estrarre nei prossimi 30 anni più di quanto si sia mai estratto nei precedenti 5.000 anni. L’estrazione mineraria è il motore della transizione verde esattamente come l’attuale sistema energetico ne dipende per l’approvvigionamento dei combustibili fossili. La COP26 ha confermato come politici, ONG e consumatori siano pronti a stimolare la domanda di materie prime per la transizione energetica attraverso la definizione di un’ambiziosa serie di obiettivi: una maggiore generazione e distribuzione di energie rinnovabili, stoccaggio, infrastrutture di ricarica ed adozione di veicoli elettrici che richiederanno una massiccia accelerazione degli investimenti nell’estrazione e nella lavorazione primaria. Ora se la domanda sembra assicurata pare lecito capire se l’offerta sia in grado di sostenerla e a quali costi. L’offerta si deve necessariamente confrontare con una serie di problematiche che presentano gravi criticità: innanzi tutto la disponibilità fisica della materia prima.

Se nel 2050 a livello globale quasi il 70% di energia elettrica dovesse essere prodotta da eolico e solare sarà necessario estrarre miliardi di tonnellate di metalli, almeno 3,5 secondo la World Bank. Nell’attuale narrativa green “le risorse non sono un problema”: un goffo tentativo di nascondere sotto il tappeto un problema che minerebbe le fondamenta stesse delle transizione. L’idea stessa che ci possano essere limiti basati sul sistema dell’estrazione globale di risorse è considerata folle dall’attuale mercato economico. Una delle fonti più utilizzate per stimare l’entità delle riserve e delle risorse minerarie è il Servizio Geologico Statunitense (United States Geological Service), che raccoglie informazioni da miniere e depositi di tutto il mondo per tutte le materie prime. Dalla narrativa green questi dati vengono divulgati come realtà fisiche evitando di spiegare quello che invece lo stesso USGS evidenzia: si tratta del risultato di un’analisi geostatistica. Infatti se le riserve dichiarate possono essere considerate in parte attendibili, poiché il loro tenore e cubaggio è stato compiutamente misurato, altre sono solo dedotte cioè non sono convalidate da campioni e misure. Ma il reale problema viene dalla stima delle risorse che sono inesplorate, la cui esistenza è puramente ipotetica o basata su analogie geologiche. Dati, quindi, che vanno assunti con grande cautela: le risorse di cobalto identificate includono quelle presenti nei noduli e nelle croste di manganese sul fondo degli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico la cui accessibilità ed economicità è, a dir poco, remota. Inoltre esistono stime diverse da organismi internazionali altrettanto qualificati: per il Department of Industry, Science, Energy and Resources del Governo Australiano il valore delle riserve di rame dell’Australia sono 22 Mt mentre per l’USGS sono 88 Mt, analogamente per il litio sono 3,4 Mt per i primi 4,7 Mt per i secondi. Molto spesso vengono utilizzate informazioni fornite dalle compagnie minerarie le cui finalità, però, percorrono strade diverse: su un’analisi di 115 miniere che rappresentano l’80% della fornitura globale di rame al di fuori della Cina tra il 2001 e il 2014 è emerso che queste società hanno sostituito quasi il 300% della loro produzione con nuove riserve lorde. Guardando solo alle aggiunte di riserve, il futuro dell’industria globale del rame sembrava roseo. Ma notoriamente il diavolo si nasconde nei dettagli. Quasi l’80% delle riserve contabilizzate tra il 2001 e il 2014 non provenivano da nuove scoperte, né dal ritrovamento di nuove zone in relazione ai giacimenti esistenti, quasi tutte queste aggiunte provenivano dalla riclassificazione di quella che era stata considerata roccia di scarto in minerale estraibile, un processo noto nell’industria come “abbassamento del grado di cutoff” cioè quella soglia al di sotto della quale diventa antieconomico estrarre il minerale. Oggi tenore di cut-off è di 0,25%: il che significa estrarre, frantumare e processare circa 400 tonnellate di roccia ed immettere nell’atmosfera fino a 20 tonnellate di CO2 e per ottenerne una di rame. Eppure malgrado queste evidenze politici, ONG e consumatori sono pronti a stimolare la domanda di materie prime per la transizione energetica attraverso la definizione di un’ambiziosa serie di obiettivi: questi impegni per una maggiore generazione e distribuzione di energie rinnovabili, stoccaggio, infrastrutture di ricarica e adozione di veicoli elettrici richiederanno una massiccia accelerazione degli investimenti nell’estrazione e nella lavorazione primaria. Greenflation Prendendo in considerazione solo un campione di quattro metalli[1] rame, nichel, cobalto e litio, considerati i metalli più importanti e più fortemente influenzati dalla transizione energetica molteplici analisi concordano che il valore totale della produzione potrebbe aumentare di oltre quattro volte per il periodo 2021-2040. Rame e nichel sono definiti metalli di base e sono stati scambiati per più di un secolo sulle borse dei metalli, sono ampiamente utilizzati in tutta l’economia ed anche nelle tecnologie a basse emissioni di carbonio. Cobalto e litio, invece, vengono spesso definiti metalli tecnologici e sono considerati metalli critici ma il loro utilizzo è in forte aumento. Hanno iniziato a essere scambiati sulle borse di metalli negli anni 2010 e hanno attirato l’attenzione degli investitori, principalmente perché vengono utilizzati nella produzione di batterie. Una recente analisi dell’FMI riscontra come i prezzi di rame, nichel, cobalto e litio potrebbero raggiungere picchi storici per un periodo senza precedenti in uno scenario di emissioni nette zero. Se la domanda di metalli aumenta e l’offerta è lenta a reagire, potrebbe causare un rally pluriennale dei prezzi, che potrebbe far deragliare o ritardare la transizione energetica ma soprattutto potrebbe abbattersi come uno tsunami sull’economia reale. Poiché oggi la capacità produttiva dell’industria mineraria globale in tutte le aree dello sviluppo, dell’estrazione primaria e della lavorazione dei metalli è sottodimensionata. Per facilitare la crescita della domanda, le compagnie minerarie dovranno aumentare gli investimenti in attività di natura operativa, capex, per permettere la crescita della capacità primaria. Le stime indicano in poco meno di un trilione di dollari la spesa prevista entro il 2030 solo per evitare colli di bottiglia verso il raggiungimento di “Net-Zero” ed in più del doppio, 2 trilioni di dollari, per ottenere una transizione energetica accelerata. Per contestualizzare questo numero si consideri che il capex minerario globale è stato poco meno di 100 miliardi di dollari nell’ultimo decennio.


L’ultimo superciclo delle materie prime di un decennio fa ha comportato pesanti costi ed operazioni onerose che si sono concluse con miliardi di svalutazioni. Pertanto, molti azionisti rimangono tiepidi sulle grandi espansioni greenfield, cioè nella ricerca di nuovi giacimenti. Sarà quindi importante capire come le compagnie bilanceranno la distribuzione dei dividendi con un equilibrio di capex spostato verso la crescita ma soprattutto, in via principale, se l’industria mineraria, o meglio i suoi investitori, intenda finanziare gli investimenti significativi necessari per seguire il percorso di una transizione accelerata. Secondo molti operatori, le compagnie minerarie che espandessero gli investimenti in modo troppo aggressivo, facendo crescere la produzione troppo rapidamente, danneggerebbero potenzialmente le dinamiche positive della domanda e dell’offerta: l’attuale livello dei prezzi delle commodities fa gola ad una finanza che vede con meno interesse il problema delle crescenti emissioni di CO2 . Naturalmente, questo presuppone che rimanga possibile sviluppare fisicamente la capacità di estrazione e di trasformazione richiesta nel tempo, il che non è affatto un dato di fatto: oggi i tempi di apertura di una miniera dalla scoperta alla produzione, secondo Mark Cutifani, CEO di Anglo American, sono fino a 12-13 anni e ricordiamo che, secondo la IEA, questo valore sarebbe più vicino ai 18 anni. Inoltre, gli investitori istituzionali preferiscono, naturalmente, limitare gli investimenti ai paesi a basso rischio, ma questo non sarà possibile se una transizione energetica accelerata deve diventare la via obbligata. Saranno quindi necessari accordi intergovernativi per garantire la tutela della proprietà e per sostenere effettivamente progetti in cui, il profilo di rischio del paese, ha finora precluso gli investimenti al fine di evitare alle compagnie minerarie i rischi legati al nazionalismo delle risorse. Ma produrre energia con turbine eoliche e pannelli fotovoltaici o conservarla mediante batterie, richiede un enorme aumento delle forniture di materie prime. Ogni auto elettrica contiene circa 180 kg in più di alluminio e circa 68 kg in più di rame rispetto a un’auto convenzionale: che si aggiungeranno ai livelli di produzione attuali. Sfortunatamente, come ha sottolineato la stessa Agenzia internazionale per l’energia (IEA), l’offerta di minerali critici non si sta espandendo rapidamente. Anzi, nemmeno si avvicina alle reali esigenze. Questa è una formula incendiaria per l’inflazione. Perseguire i propositi del presidente Biden e dell’Unione europea sul tema di un raddoppio dell’energia verde per sottrarsi alla dipendenza del gas russo, che ad una prima analisi potrebbero sembrare logici, che sia realistico o meno il loro raggiungimento, è inflazionistico. E questo contesto durerebbe più a lungo dell’inflazione sul cibo o sul carburante poiché, come visto, molti di questi metalli vengono utilizzati trasversalmente in tutti gli ambiti della produzione industriale. L’impatto inflazionistico del tentativo di soddisfare le richieste di materie prime necessarie ad un raddoppio della produzione di “energia verde” porterebbe i prezzi dei metalli a raggiungere picchi storici per un periodo senza precedenti e prolungato di circa un decennio. Naturalmente senza considerare che l’aumento dei prezzi porterebbe i costi dell’energia a livelli tali da far rimpiangere il gas russo... Il processo di estrazione di una risorsa limitata dalla crosta terrestre significa sottrarla alla disponibilità delle generazioni future, evitiamo di farlo con una transizione che si presenta palesemente acritica e irrazionale, fideistica e strumentale, e pertanto priva di attenzione ai pesantissimi effetti collaterali. t Per una completa analisi si veda: Giovanni Brussato, Energia verde? Prepariamoci a scavare, Montaonda, 2021. wT. Norgate *, S. Jahanshahi, Low grade ores – Smelt, leach or concentrate? CSIRO Minerals Down Under Flagship, Box 312, Clayton South, Victoria 3169, Australia Simon P. Michaux, The Mining of Minerals and the Limits to Growth Geological Survey of Finland Kirsten Hund, Daniele La Porta, Thao P. Fabregas, Tim Laing, John Drexhage, Minerals for Climate Action: The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition, World Bank, Mineral commodity summaries 2021: U.S. Geological Survey U.S. Geological Survey, 2021 Hammarstrom, J.M., Zientek, M.L., Parks, H.L., Dicken, C.L., and the U.S. Geological Survey Global CopperMineral Resource Assessment Team, Assessment of undiscovered copper resources of the world, 2015

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ASPETTI FINANZIARI delle politiche climatiche

di MARIO GIACCIO

(Già Preside della Facoltà di Economia dell’Università “G. D’Annunzio” di Pescara)



I l Protocollo di Kyoto è un accordo internazionale, firmato nel 1997, per limitare le emissioni di anidride carbonica (CO2 ) proveniente dalla combustione dei combustibili fossili, ritenuta responsabile dell’effetto serra. E’ entrato in vigore nel 2005. I partecipanti al protocollo si impegnarono a ridurre le emissioni di CO2 di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990. Nel 1990 la CO2 emessa dall’uomo ammontava a 22,3 Gt (miliardi di tonnellate). In atmosfera ve ne sono 3.000 Gt, quindi l’incidenza era dello 0,74% (22,3 × 100/3.000). La riduzione proposta è dello 0,037% sulla quantità globale di CO2 (il 5% dello 0,74%). Nel 2019 la CO2 emessa dall’uomo è stata di 34,2 Gt, dal 1990 al 2019 si è avuto un incremento del 53% (da 22,3 a 34,2). Cina, Usa, EU, India, Russia Fed. e I l Protocollo di Kyoto è un accordo internazionale, firmato nel 1997, per limitare le emissioni di anidride carbonica (CO2 ) proveniente dalla combustione dei combustibili fossili, ritenuta responsabile dell’effetto serra. E’ entrato in vigore nel 2005. I partecipanti al protocollo si impegnarono a ridurre le emissioni di CO2 di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990. Nel 1990 la CO2 emessa dall’uomo ammontava a 22,3 Gt (miliardi di tonnellate). In atmosfera ve ne sono 3.000 Gt, quindi l’incidenza era dello 0,74% (22,3 × 100/3.000). La riduzione proposta è dello 0,037% sulla quantità globale di CO2 (il 5% dello 0,74%). Nel 2019 la CO2 emessa dall’uomo è stata di 34,2 Gt, dal 1990 al 2019 si è avuto un incremento del 53% (da 22,3 a 34,2). Cina, Usa, EU, India, Russia Fed. e ti dalla Cina ammonta a 0,576 Gt, ovvero il 16,6% (0,576/3,47) all’anno delle proprie emissioni. La diminuzione delle emissioni europee (1,0 % all’anno), è di gran lunga superata dal surplus di CO2 dei beni importati (16,6% all’anno).

L’Europa continuerà a finanziare, con le proprie importazioni, l’industria fortemente emissiva dei Paesi extra UE. Le stesse produzioni, se fossero attuate in Europa, produrrebbero molta meno anidride carbonica, infatti se si esaminano e si confrontano le fonti energetiche primarie impiegate in Europa con quelle della Cina, si nota una differenza molto evidente: il mix energetico cinese è fortemente spostato verso il carbone e il petrolio, mentre in Europa prevalgono il gas naturale e il nucleare, seguiti dal petrolio. Anche se l’Europa riducesse del 40% le proprie emissioni per il 2030, il risultato sarebbe “invisibile”, infatti l’Europa (nel 2019) ha prodotto 3,47 Gt di CO2 , ossia il 10% delle emissioni globali, ossia lo 0,11 % di tutta l’anidride carbonica presente nell’atmosfera: il risparmio del 40% (sul 45% delle attività considerate dall’Europa) influirebbe sul quantitativo totale di CO2 atmosferica per lo 0,020 % (il 40% del 45% dello 0,11%) in 10 anni! Se in atmosfera ci sono 400 ppm di CO2 , lo 0,020% di 400 è = 0,080 ppm. Quindi, supponendo che la presenza di CO2 in atmosfera sia dovuta esclusivamente alle azioni dell’uomo, la finalità dell’Europa è di impedire che l’incremento della CO2 atmosferica salga da 400 ppm a 400,08 ppm in dieci anni. Ossia 8 parti per miliardo all’anno! Questo incremento è difficilmente misurabile. L’Europa per raggiungere questo obiettivo ha messo in moto un mercato di scambio dei permessi ad emettere CO2 , che si aggira intorno ai 200 miliardi di € all’anno (nel 2020). Il sistema di scambio commerciale delle quote, o permessi di emissione, di anidride carbonica emessa (ETS = Emissions Trading System) si basa sul cosiddetto cap and trade: si fissa un limite (cap) alla quantità totale di emissioni che ciascun Paese può emettere; le aziende soggette all’accordo, se superano la quota assegnata, possono acquistare sul mercato (trade) i permessi di emissione da quelli che emettono di meno. In pratica il produttore di CO2 non necessariamente deve ridurre le proprie emissioni, ma può comprare i permessi (di emissione) in modo da rientrare nei limiti assegnatigli. Il sistema ETS si basò sull’assunto che il mercato potesse contribuire a ridurre le emissioni di CO2 in modo “economicamente conveniente”: il sistema doveva far aumentare il prezzo delle “quote carbonio” per rendere conveniente gli investimenti per le innovazioni che riducevano il consumo dei combustibili fossili. L’ETS ha avuto inizio nel 2005 quando il prezzo dell’anidride carbonica oscillava tra i 30 e i 50 € a tonnellata. In breve tempo però si verificò una situazione di squilibrio dovuta ad una scarsa domanda ed un eccesso di offerta. I prezzi si orientarono al ribasso, fino alla forte flessione verificatasi a fine 2007; scendendo ad un valore minimo intorno ai 2 euro (per t di CO2 ) nell’aprile del 2013. Questo squilibrio fra domanda e offerta divenne strutturale. Il mercato del carbonio si è trasformato progressivamente in un mercato finanziario che attrae operatori, non soggetti ai vincoli delle emissioni, aventi finalità speculative o interessati ad offrire servizi finanziari legati ai permessi di emissione. La maggior parte del mercato dei permessi di emissione della CO2 , è diventato un mercato di crediti a termine: in teoria si può contrattare anidride carbonica non ancora prodotta. Il GSE (Gestore del Sistema Elettrico) nel rapporto annuale del 2014 commentava: «Gli andamenti dell’ultimo anno hanno mostrato come l’interesse del mondo finanziario abbia costituito un elemento di continuità per il mercato dei crediti e quindi del meccanismo di scambio». In pratica, se non ci fossero stati gli operatori esterni e la speculazione, il sistema sarebbe crollato. Tra il 2021 e il 2030 è prevista un’assegnazione gratuita (alle imprese) di 6,3 miliardi di quote di emissione che, al valore attuale di mercato di 60 € a quota, ammonta a 378 miliardi di euro. Perché? Il sistema di assegnazione gratuita è importante per evitare i trasferimenti della produzione al di fuori dell’UE. L’Europa prima fa pagare i permessi di emissione (ossia introduce un’ulteriore imposta sulla produzione), poi li regala (toglie l’imposta) per paura che le industrie (ben 50 settori produttivi) emigrino fuori dall’Europa!

Nel corso del 2021 le restrizioni e i meccanismi messi in moto dall’UE hanno portato il prezzo della tonnellata di CO2 ad oltre 60 €. Ciò ha prodotto un aumento del costo di produzione industriale dell’energia elettrica stimato intorno a 5,5 miliardi di €, che si riverserà totalmente sul consumatore. Se si fa riferimento all’esperienza storica, le produzioni europee diventeranno ancor meno competitive a vantaggio dei produttori extra-UE, dove si ricorre a fonti energetiche poco costose (e altamente emissive).

La cifra incide per il 4,24% sul costo finale del kWh, tale percentuale non è molto alta perché il maggior costo dell’elettricità è già dovuto ai sussidi per le fonti rinnovabili, infatti il costo dell’energia elettrica in Italia (129,81 miliardi di €), è imputabile per il 53% (68,7 miliardi di €) alle fonti rinnovabili (con un costo per kWh di 36 centesimi) e al restante 47% (61,1 miliardi di €) alle fonti convenzionali (con un costo per kWh di 17 centesimi). Nel bilancio dell’Unione Europea è previsto un aumento della spesa destinata “a lottare contro la CO2 ” fino ad un totale di 30 miliardi di euro. A questo aumento dei fondi, destinati a salvare il clima dell’Europa, corrisponde la diminuzione dei fondi destinati all’agricoltura, che dovrebbe essere protetta per motivi sociali. Il nostro Paese perderà 370 milioni di euro e le regioni più colpite saranno quelle del Sud. Riassumendo: il volume di denaro messo in movimento in Europa, direttamente o indirettamente, per la lotta contro la CO2 è di oltre 500 miliardi di € all’anno, tutto questo per far diminuire di 8 parti per miliardo, all’anno, la quantità di CO2 in atmosfera. Tenendo conto di questa quantità, l’apparato economico-finanziario messo in atto sembra spropositato per un risultato che appare minimale. Probabilmente non vi è attinenza con il clima, le azioni proposte sembrano più verosimilmente delle politiche finanziarie. Il clima e il “rilancio” della finanza mondiale Il Panorama globale della finanza per il clima 2013 del Climate Policy Initiative (CPI Report, 2013 e 2014), rileva che «i flussi finanziari globali per il clima si sono stabilizzati a 359 miliardi di dollari all’anno, circa 1 miliardo di dollari al giorno». Ritiene che tale cifra sia molto al di sotto delle esigenze di investimento. La Banca Mondiale, nel report del 2017 (State and Trends of Carbon Pricing 2017), indica che gli investimenti devono essere incrementati a 700 miliardi di $ all’anno, fino al 2030. A conclusione della COP 21 di Parigi del 2015, Nicholas Stern (ex responsabile economico della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo) disse: «Gli investitori mondiali chiedono: grande possibilità di investimenti, buoni profitti e libertà di azione». E prosegue: «Dal summit esce con chiarezza la direzione che sta prendendo l’economia. Chi oggi deve decidere gli investimenti da fare avrà molta più fiducia nel fatto che sarà il settore a basse emissioni a dare profitti, mentre il settore delle fonti fossili comporterà dei grandi rischi finanziari». «Gli investitori vedono nel cambiamento climatico la nuova svolta economica da cui estrarre valore». Il Patto Finanza – Clima Nel dicembre 2017, a due anni dall’Accordo di Parigi, Macron ha ospitato un Summit per un patto Finanza-Clima. In esso si denunciava il caos climatico e finanziario verso il quale si dirige l’umanità. Sembra quasi che il caos finanziario sia un evento naturale (non dovuto all’uomo) mentre il caos climatico, che è un fatto naturale, viene imputato all’uomo. I promotori chiedono di riorientare la politica monetaria per finanziare la transizione energetica. Si stima che occorrano circa 1.110 miliardi di € d’investimenti all’anno, assicurando molti profitti. L’Institute of International Finance (il cartello della finanza globale) ha definito la green economy: “il nuovo oro”. L’enorme debito mondiale degli Stati non preoccupa l’IIF per le conseguenze negative sui diritti sociali, come la diminuzione dei fondi per la sanità, per l’istruzione, per la previdenza o per la mancata fornitura di energia elettrica a due miliardi di abitanti che non ne usufruiscono, ecc. L’IIF si preoccupa invece per la minore disponibilità di investimenti destinati a prevenire i presunti rischi climatici. Il Direttore Esecutivo dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, Fatih Birol, dice: «Le emissioni globali di carbonio sono destinate ad aumentare di 1,5 miliardi di tonnellate quest’anno. Questo è un terribile avvertimento che la ripresa economica, dalla crisi di Covid, è attualmente tutt’altro che sostenibile per il nostro clima». Si augura, in pratica, che è meglio che la pandemia non si arresti, altrimenti il clima «si guasta». Nello stesso anno della COP 21, il Financial Stability Board (FSB) della Bank for International Settlements, presieduto allora da Mark Carney (Presidente uscente della Banca d’Inghilterra) ha creato una Task Force di informativa finanziaria per il clima (TCFD), per consigliare «investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». La TCFD è presieduta dal miliardario Michael Bloomberg (patrimonio stimato 59 miliardi di $); vi partecipano le più grandi banche e i più grandi fondi d’investimento del mondo, fra cui: la Industrial and Commercial Bank of China, la più grande banca del mondo con un patrimonio complessivo di 4,32 trilioni di $ (2020). La JP Morgan Chase, la seconda banca del mondo capitalizzazione di mercato di oltre 420 miliardi di $. BlackRock, la più grande società d’investimento del mondo, gestisce un patrimonio di 7 trilioni di $ (2020) (è più del PIL della Germania e della Francia messi insieme). La Swiss Re (Swiss Reinsurance Company) è la seconda società di riassicurazione mondiale, patrimonio: 238,6 miliardi di $. L’ENI S.p.A. multinazionale collocata fra le sette maggiori compagnie petrolifere del mondo, patrimonio 109,64 miliardi di €. La Dow Chemical Company multinazionale del settore chimico, all’epoca della creazione del TCFD era la seconda più grande industria chimica del mondo, con un fatturato di 48 miliardi di $. La BHP Billiton è la maggiore società mineraria al mondo; proviene dalla fusione della società australiana Broken Hill Proprietary Company con la società inglese Billiton, patrimonio 104,8 miliardi di $; CO2 emessa negli ultimi 5 anni: 83 milioni di t. La Tata Steel è una multinazionale indiana fra le principali aziende produttrici di acciaio del mondo (13 milioni di tonnellate di acciaio all’anno), nel 2021 risulta un patrimonio di 33 miliardi di $; è ovviamente uno dei maggiori emettitori di CO2 (110 milioni di tonnellate negli ultimi 4 anni). La Generation Investment Management LLP (Generation IM) è una società di servizi finanziari e di gestione degli investimenti presieduta da Al Gore e co-fondata con il capo dell’Asset Management della Goldman Sachs, David Blood, nel 2004. La finalità è di raccogliere investimenti sui fondi comuni di investimento e altri investimenti cosiddetti “sostenibili” gestiti dalla società. Il valore dei fondi investiti, nel 2020, era di 22,4 miliardi di $; Greta Thunberg è collegata all’organizzazione di Al Gore. In relazione al TCFD, Philip Hammond, già Cancelliere dello Scacchiere britannico dal 2016 al 2019, nel 2019 ha pubblicato un opuscolo di 43 pagine “per rendere più ecologici i sistemi finanziari”, dal titolo: Green Finance Strategy - Transforming Finance for a Greener Future. In esso si afferma: «Una delle iniziative più importanti che emergono è la Task Force del Financial Stability Board che ha lo scopo di fornire informazioni finanziarie relative al clima (TCFD), essa è supportata da Mark Carney e presieduta da Michael Bloomberg. Le istituzioni partecipanti (alla Task Force) rappresentano un patrimonio 118 trilioni di dollari a livello globale». Larry Fink, amministratore delegato del gruppo BlackRock dice: “Credo che siamo all’inizio di un rimodellamento fondamentale della finanza. Il rischio climatico costringe gli investitori a rivalutare le ipotesi fondamentali sulla finanza moderna”. «...si verificheranno cambiamenti nell’allocazione del capitale più rapidi di quanto cambierà il clima stesso. ...È ovvio che pochi, tra i grandi gruppi finanziari, guideranno questa riallocazione». In un’intervista con la Neue Zürcher Zeitung, Ottmar Edenhofer, vicedirettore del Potsdam Institute for Climate Impact Research e responsabile del Gruppo di lavoro 3 dell’IPCC, dichiarò: «….bisogna dire chiaramente che stiamo di fatto ridistribuendo la ricchezza mondiale attraverso la politica climatica. [...] Bisogna liberarsi dall’illusione che la politica climatica internazionale sia politica ambientale. Questo non ha quasi nulla a che fare con la politica ambientale o con problemi come la deforestazione o il buco dell’ozono». In effetti si intuisce che la complicata azione globale per il clima riguarda maggiormente la riorganizzazione dell’economia globale, che non la diffusione di fonti energetiche poco efficienti e molto costose, che comporterebbe un drastico abbassamento degli standard di vita specialmente per i meno abbienti. Nel 2016, è nata la Breaktrhough Energy Coalition, un gruppo di 28 investitori ad alto patrimonio, per investire in imprese emergenti nel settore delle energie rinnovabili. Il fondatore è Bill Gates, che guida il gruppo con un proprio investimento di 2 miliardi di dollari, vi fanno parte: Jeffrey Bezos, patrimonio stimato di 197,8 miliardi di dollari. Mark Zuckerberg uno dei fondatori di Facebook, patrimonio 116,2 miliardi di $. Jack Ma, è il 4° uomo più ricco della Cina, patrimonio di 46 - 55 miliardi di $. Masayoshi Son, l’uomo più ricco del Giappone con un patrimonio di 29,1 miliardi di $. Ray Dalio, patrimonio 20 miliardi di $. Nathaniel Simons, patrimonio netto stimato 10,6 miliardi di $. Marc Benioff, patrimonio 7,8 miliardi di $. E così di seguito. Durante la COP 26 di Glasgow (novembre 2021) è stato raggiunto un accordo: The Glasgow Financial Alliance for Net Zero. Nell’occasione Mark Carney ha dichiarato: «abbiamo gli strumenti per spostare il cambiamento climatico dai margini all’avanguardia della finanza in modo che ogni decisione finanziaria tenga conto del cambiamento climatico… questo obiettivo può essere in grado di reperire circa 100 trilioni di dollari di investimenti necessari nei prossimi tre decenni . . . i governi devono definire politiche prevedibili e credibili. Ciò darà al finanziamento la fiducia necessaria per investire». Quest’ultimo è un punto essenziale (che viene sempre ribadito in occasione delle previsioni di investimento) in quanto lo sviluppo delle fonti rinnovabili, a causa del loro costo, è legato ai sussidi di Stato; quindi se la politica statale venisse meno in tema di sussidi non ci sarebbe più convenienza all’investimento. Lo ribadisce Nigel Topping: «Il sistema finanziario è pubblicamente impegnato a riallineare i modelli di business con la scienza del clima […] abbiamo bisogno che i governi aiutino a portare a termine il lavoro, con politiche ambiziose che possano aiutare ad indirizzare gli investimenti dove è necessario. I decisori politici saranno ritenuti responsabili degli impegni presi». A tal proposito è emblematico il caso della Germania: l’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici installati nel 2004, ha un prezzo garantito tra 460 e 570 euro al MWh (fino al 2024); quella degli impianti installati nel 2010, ha un prezzo garantito tra 280 e 380 euro al MWh (fino al 2030). Si ricorda che fino al 2019 il prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Europa si aggirava intorno ai 30 - 60 euro per MWh e soltanto dall’ottobre scorso il prezzo è salito intorno ai 180 euro, comunque sempre di molto inferiore all’importo dei sussidi. Per l’eolico i sussidi sono più contenuti, essendo superiori del 50 – 80% all’attuale prezzo di mercato dell’elettricità. 450 aziende di 45 paesi si sono impegnate a fornire i 100 trilioni di $ necessari per incrementare le energie pulite, secondo l’accordo di Glasgow. Dilemma: si tratta di “transizione energetica” o di “transazioni finanziarie”?

Un Club per soli miliardari L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile “per garantire un presente e un futuro migliore al nostro Pianeta e alle persone che lo abitano”, è stata sottoscritta il 25 settembre 2015 da 193 Paesi delle Nazioni Unite. In pratica “per trasformare il nostro mondo”, ivi comprese le misure urgenti per combattere il cambiamento climatico e le sue conseguenze, implica lo sviluppo di trilioni di dollari di investimenti e di nuova ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari che sono i veri poteri costituiti. L’Agenda 2030 contiene una novità: viene riproposto, dopo il Club di Roma del 1972 (Meadows et al., 1972), un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, ma questa volta viene

espresso non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale, superando in questo modo l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale e affermando una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo. È l’aggiornamento in funzione oligarchico-finanziaria dell’ideologia malthusiana già presente nel rapporto della commissione Brundtland (Our Common Future) del 1987. Quando le multinazionali più influenti e i maggiori investitori istituzionali del mondo (supportati dall’ideologia che va di moda all’ONU), tra cui ICBC, Morgan Chase, Goldman Sachs, BlackRock, la Banca mondiale, la Banca d’Inghilterra e altre banche centrali, si schierano per finanziare un Green New Deal, o in qualsiasi modo si voglia chiamare, sarebbe meglio chiedersi cosa c’è sotto le campagne pubblicitarie che cercano di convincere la gente comune a fare sacrifici inspiegabili per “salvare il nostro pianeta”. O per salvare il “loro” pianeta? Il sistema economico mondiale è diventato obsoleto (come accade a tutti i sistemi), non si può più “estrarre” abbastanza valore, quindi bisogna cambiarlo. Il quadro che emerge è il tentativo di riorganizzare finanziariamente l’economia mondiale usando l’obiettivo “zero emissioni” come scusa. La finalità dell’ideologia climatica non è il benessere del pianeta (e dei suoi abitanti), è il benessere della grande finanza.


Nota: i dati riferiti sono facilmente rintracciabili sulla letteratura scientifica e sulla rete. Una raccolta significativa di saggi, riguardante l’argomento sopra esposto, è stata pubblicata nel 2020: Executive Intelligence Review, Dossier sulla frode genocida del Green New Deal, MoviSol.org e tradotta in italiano dal Movimento Internazionale per i Diritti Civili – Solidarietà.


>>>articolo originale online>>>







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