La Sola Fede e la Giustificazione: i Giudaizzanti, Lutero e Bergoglio
Seconda parte
L’Epistola di S. Paolo ai Galati, Capitolo IV
la legge, la fede e il giudeocristianesimo
*** *** ***
Col capitolo IV si conclude la parte dogmatica dell’Epistola ai Galati sui rapporti tra la Legge e la Grazia iniziata al capitolo III.
Nell’ultimo articolo abbiamo studiato il
terzo capitolo, vediamo ora il significato del quarto capitolo secondo
l’interpretazione della sana esegesi.
In esso l’Apostolo – proseguendo quanto
aveva iniziato nel capitolo precedente – spiega come il Vangelo, in
quanto perfezionamento del Vecchio Testamento e della Legge mosaica, dia
la perfetta libertà; mentre la Legge cerimoniale – dopo la venuta di
Cristo – ci sottoporrebbe alla schiavitù.
Infatti,
dopo la venuta di Cristo, la Legge morale mosaica è buona ma imperfetta
ed è stata perfezionata da Gesù; invece la Legge cerimoniale, che
preparava Israele alla venuta del Messia è stata abolita e non può
essere più osservata, sotto pena di sostenere che il Messia dovrebbe
ancora venire e quindi di naufragare nella fede, rinnegando Gesù.
Nel primo versetto del capitolo IV san
Paolo dimostra come nella storia della religione vi sono due stadi,
proprio come nella storia della vita di ogni singolo uomo, ossia: la
fanciullezza e la maturità.
La Legge cerimoniale che preparava
all’Avvento del Messia Gesù di Nazareth rappresenta il primo stadio,
cioè la fanciullezza, la quale deve essere superata e perfezionata dalla
maturità, se non si vuole che il fanciullo resti un eterno minorenne,
che deve rimanere sotto i tutori sino a che non sia cresciuto e arrivato
alla maggiore età (v. 1-2).
Infatti, se l’erede è ancora fanciullo, pur essendo de jure padrone di tutta l’eredità che gli lascerà suo padre; de facto
non si differenzia da uno schiavo, poiché non può ancora disporre della
sua eredità, non avendo l’età e la capacità di amministrarla.
Quando il minorenne è diventato adulto,
allora cessa ogni autorità tutoria su di lui ed egli entra in pieno
possesso, non solo teorico ma anche pratico, dei suoi diritti ereditari e
della sua libertà.
Nella storia religiosa dell’umanità, il
momento di questo passaggio alla maturità e di questa liberazione
spirituale è rappresentato dall’Avvento di Gesù.
Infatti, prima dell’Incarnazione del
Verbo, tutti gli uomini, sia i Giudei che i Pagani, stavano sotto “gli
elementi del mondo”, cioè sotto le norme della Legge cerimoniale
giudaica per quanto riguarda gli Israeliti o sotto i riti della
tradizione pagana per quel che riguarda tutti gli altri uomini (v. 3).
Tuttavia, quando venne “la pienezza del
tempo” stabilito dalla SS. Trinità, (v. 4), Dio inviò suo Figlio, il
Verbo, che volle assoggettarsi alla Legge cerimoniale, pur non avendone
bisogno, per poter “riscattare gli uomini che erano sotto la Legge
cerimoniale, affinché ricevessero l’adozione di figli” (v. 5).
Insomma
Cristo – pur essendo Dio e non avendo bisogno di osservare la cerimonie
veterotestamentarie – si volle sottomettere al cerimoniale ebraico, per
riscattare e liberare tutti gli uomini dalla schiavitù del cerimoniale
pagano o giudaico e renderli figli adottivi di Dio.
San Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (I sezione – II parte, questione 108, articolo 4) insegna che “la Legge di Gesù ha liberato l’uomo dalla farragine dei Precetti cerimoniali e giudiziali della Legge Antica, perciò è detta Legge di libertà”.
Si capisce, perciò, l’ardore con cui san
Paolo confuta l’errore giudaizzante che vorrebbe riportare tutti gli
uomini, anche i Cristiani, sotto la schiavitù del cerimoniale giudaico,
che inoltre dopo la morte di Cristo non solo è stato abrogato (“mortuus est”), ma se venisse osservato darebbe anche la morte (“mortiferus esset”) all’anima, professando una fede falsa, ossia che il Messia non è venuto ma deve ancora venire.
Questo è il fine dell’Incarnazione del
Verbo: l’incorporazione dell’uomo al Verbo affinché anche gli uomini
possano diventare figli adottivi di Dio, mentre il Verbo è Figlio
naturale e consustanziale del Padre.
Grazie alla presenza di Gesù in noi (v.
6), tramite la grazia santificante, non siamo più schiavi dei riti
(pagani e ebraici), ma siamo “figli adottivi ed eredi” per opera di Dio e
della Sua grazia, ossia per un dono gratuito dell’amore di Dio e non
per l’osservanza della Legge cerimoniale ebraica o per una discendenza
razziale da Abramo.
Quindi, l’Apostolo esprime tutta la sua
meraviglia sdegnata per il fatto che i Galati, dopo aver ricevuto da Dio
la grazia della fede e della conversione (vv. 8-11), possano voler
tornare a servire “i deboli e miserabili elementi” (v. 9), ossia le
osservanze giudaiche, che oramai dopo la Redenzione di Cristo, sono
inutili e anzi dannose in quanto negano che il Messia sia già venuto e
ne aspettano un altro (v. 10).
Infatti, se prima i Galati (quando erano
ancora Pagani) potevano avere l’attenuante dell’ignoranza (v. 8), ora –
dopo aver conosciuto il Vangelo – non più.
Dopo una parentesi autobiografica (vv.
12-20) san Paolo torna a descrivere il tema della schiavitù della Legge
cerimoniale ebraica, dalla quale (e non dalla Legge divina e naturale,
come vorrebbero Lutero e Bergoglio) Gesù è venuto a liberarci,
perfezionando i Comandamenti morali mosaici e dandoci la forza per
osservarli.
La
vera Religione consiste 1°) in ciò che bisogna credere, 2°) in ciò che
occorre fare e 3°) nei mezzi della grazia che ci danno la forza di
credere e vivere la fede facendo il bene e fuggendo il male morale. È
assurdo pensare, come fanno Lutero e Bergoglio, che si possa essere
amici di Dio, se pur credendo a quanto Lui ci ha rivelato, poi facciamo
il contrario di quel che ci comanda di fare, dandoci la grazia per
vivere santamente.
Per dimostrare che la Legge cerimoniale è
uno strumento di schiavitù, poiché nega la divinità e messianicità di
Gesù Cristo, l’Apostolo riprende quanto l’Antico Testamento (Gen., XVI, 15) aveva detto a questo riguardo e riporta l’esempio dei due figli di Abramo: Ismaele e Isacco (vv. 22-23).
Ora, come narra la Genesi, Ismaele nacque da Agar, la schiava, in maniera del tutto naturale (Gen., XVI, 15), mentre Isacco nacque dalla libera, Sara, per virtù della “promessa divina” (Gen., XXI, 3) essendo Sara sterile e avendo 90 anni.
Allegoricamente questo fatto storico
significa che le due donne (Agar e Sara) rappresentano il Vecchio e il
Nuovo Testamento. Agar il Vecchio Testamento (II Cor., III, 14) e Sara il Nuovo Testamento (II Cor., III, 6).
Infatti, la Legge mosaica dell’Antica
Alleanza fu stipulata sul Monte Sinai, in Arabia (vv. 24-25), che è il
Paese dei discendenti d’Ismaele, il figlio di Agar la schiava. Ora,
secondo l’Apostolo, il Giudaismo postbiblico, che ha rifiutato il Messia
Gesù di Nazareth, è il rappresentante di questo spirito di servitù che viene dalla fedeltà alla Legge cerimoniale ebraica anche dopo la morte di Cristo.
Il Giudaismo talmudico (non la Legge
naturale e divina) è schiavo assieme ai suoi figli, che hanno rinnegato
Gesù e si sottomettono ancora al cerimoniale mosaico (v. 25). Lutero e
Bergoglio non solo stravolgono ma ribaltano il significato dell’Epistola ai Galati,
facendole dire che la Legge naturale e divina del Vecchio Testamento
perfezionata da Gesù nel Nuovo Patto non obbliga più, una volta che gli
uomini sono arrivati alla fede e all’incontro con Cristo: “Pecca fortiter sed fortius crede!”.
Invece Sara è il simbolo della libertà che
ci viene data dalla grazia di Cristo, la quale ci rende capaci di
osservare la Legge naturale e divina, ossia i Dieci Comandamenti
dell’Antico Testamento perfezionati da Gesù nel Nuovo Testamento.
Sara prefigura o pre/significa la Chiesa, la Gerusalemme celeste, il Nuovo Testamento (v. 26).
Anche la Chiesa, come Sara, è stata a
lungo sterile e infeconda, durante tutto il periodo di attesa messianica
da Adamo sino a Gesù.
Invece adesso, ossia dopo il Calvario,
essa è madre di una prole numerosissima: gli Ebrei e i Pagani che hanno
creduto a Cristo e che, con la sua grazia, ne osservano i Comandamenti: i
Cristiani sono molto più numerosi dei figli della Sinagoga ossia degli
Israeliti (vv. 26-27).
I veri figli della promessa fatta ad
Abramo, come lo fu Isacco (v. 28), dopo la morte di Gesù, sono i
Cristiani (sia di origine pagana che ebraica) e non i Giudei (Galati, III, 16; IV, 23).
Paolo al versetto 26 è arrivato finalmente
al suo scopo e s’intrattiene perciò tranquillamente sulla libertà del
Nuovo Testamento, che ha reso inutile il cerimoniale ebraico e pagano
(non la Legge divina come diceva Lutero) e ci ha dato la forza di
credere nel Messia di Nazareth e osservare i Comandamenti di Gesù.
Da questo parallelismo tra “Ismaele/Isacco” con “Ebrei/Cristiani”, san Paolo tira due conclusioni: 1°) come Ismaele perseguitava Isacco (Gen., XXI, 9), così fanno oggi gli Ebrei contro i Cristiani (v. 29); 2°)
come Sara chiese ad Abramo di scacciare Agar e Ismaele, affinché
Ismaele non potesse ereditare da suo padre Abramo, così pure gli Ebrei,
sino a che non si convertiranno a Cristo, non potranno aver parte
all’eredità dei beni messianici o spirituali e non potranno entrare nel
Regno di Dio.
L’Apostolo tratta il tema dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento anche nell’Epistola ai Romani (IX, 1-29), scritta sùbito dopo l’Epistola ai Galati; vediamola brevemente secondo il commento che ne ha fatto san Tommaso d’Aquino.
L’Epistola ai Romani sul medesimo tema
Innanzitutto bisogna specificare che nell’Epistola ai Romani san Paolo si sofferma sulla fede mentre Lutero si è basato soprattutto su un passaggio paolino (Romani, III,
28) per elaborare la sua dottrina sulla “fede fiduciale”, la quale però
non ha nulla a che vedere con la dottrina di san Paolo.
Infatti,
secondo l’Apostolo la volontà dell’uomo non è capace da sé sola di
osservare i Comandamenti e di fare il bene che pur capisce di dover
compiere (Romani, VII, 19); ma egli non insegna per nulla
affatto (come avrebbe fatto poi Lutero) che i Comandamenti e le buone
opere non sono necessari per piacere a Dio e vivere nella Sua grazia.
La fede per l’Apostolo è una condizione
preliminare per la quale l’uomo riconosce la sua impotenza a salvarsi
con le sue sole forze naturali e accetta la grazia di Dio, datagli
mediante la fede in Cristo vivificata dalle buone opere.
Inoltre, nell’Epistola ai Romani, si
dimostra anche che Dio è rimasto fedele alle Sue promesse fatte ad
Abramo di essere padre di un popolo partecipe della salvezza spirituale
messianica (Rom., IX, 1-29); e nello stesso tempo Dio è stato giusto nel riprovare il Giudaismo che non ha voluto credere in Gesù e anzi Lo ha respinto come Messia (Rom., IX, 30-33 – X, 1- 21).
Infatti, gli Ebrei erano stati scelti da
Dio, quando Egli chiamò Abramo e strinse un Patto con Lui, ad essere il
Suo popolo primogenito (Esod., IV, 22; Deut., XIV, 1) affinché mantenesse pura la fede monoteistica, in mezzo ad un mondo sprofondato nell’idolatria politeistica.
Tuttavia, quest’adozione d’Israele nella
Vecchia Alleanza era imperfetta ed era un’ombra e una figura
dell’adozione che nella Nuova Alleanza Dio avrebbe comunicata, tramite
la grazia santificante, a tutte le anime degli uomini di tutti i popoli
(Ebrei e Gentili) che avessero creduto nel Messia Gesù ed avessero
osservato i suoi Comandamenti.
Quindi i Giudei hanno una certa nobiltà di
discendenza dai Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe), i quali
Patriarchi sono stati amati sommamente da Dio perché hanno corrisposto
alla Sua chiamata. Tuttavia i Giudei del tempo di Gesù non solo non
hanno corrisposto al dono di Dio e hanno rinnegato i loro stessi
Patriarchi i quali attendevano il Messia venturo, ma addirittura Lo
hanno crocifisso.
Il dono di essere il popolo della promessa
o il vero Israele dopo la crocifissione di Gesù è stato dato a tutti
gli uomini (Giudei o Gentili) che avessero accettato, con fede
vivificata dalla carità soprannaturale, il Messia sofferente e
spirituale: Gesù di Nazareth. Ecco, dunque, la necessità delle buone
opere insegnata da san Paolo anche nell’Epistola ai Romani.
Quindi,
per ereditare le promesse fatte ad Abramo non basta avere nelle vene il
suo sangue (non è una questione di razza), ma occorre avere nell’anima
la sua fede (è una questione spirituale e soprannaturale), vivificata
dalla carità soprannaturale.
Dio ha riprovato i Giudei increduli e contrari a Gesù per tenere con Sé tutti gli uomini (Giudei e Pagani) fedeli a Cristo. Quindi la promessa o il Patto stretto con Abramo non
fu rivolto a tutta la sua posterità carnale o razziale, ma solo ai
figli spirituali di Abramo, che credeva nel Messia sofferente e venturo (preannunziato dai Profeti). Dunque se Dio ha rigettato i Giudei increduli, non ha rotto il Patto stipulato con Abramo e ha mantenuto fede alla sua Promessa fatta ai figli spirituali di Abramo: i Cristiani, sia di origine ebraica che pagana (Rom., IX, 10).
I Cristiani, ossia coloro che hanno
corrisposto al dono di Dio, sono stati chiamati gratuitamente ed
efficacemente dalla misericordia divina, sia a partire dal popolo dei
Giudei sia da quello dei Gentili, i quali ultimi, tuttavia, hanno
risposto in maggior numero dei Giudei nell’abbracciare il Cristianesimo (Rom., IX, 24 ).
Dio non volle distruggere totalmente il
popolo, con cui aveva stretto la Vecchia Alleanza, ma ne scampò un
“piccolo resto” al tempo di Gesù. Infatti al tempo del Messia, la
grande maggioranza del popolo d’Israele Lo rinnegò e solo un “piccolo
numero” si convertì al Cristianesimo. Tuttavia questo “piccolo resto” è
chiamato “semenza” poiché prima della fine del mondo da esso nascerà una messe futura quando (moralmente e non matematicamente) tutta Israele si convertirà a Cristo (Rom., XI, 1).
Inoltre se la Legge era una figura di
Cristo, essa è cessata con l’Avvento di Gesù, in questo senso il Messia è
anche la fine o il termine della Legge e della Vecchia Alleanza. Egli è
il compimento e la perfezione della Legge, che ha stabilito una Nuova
ed Eterna Alleanza, la quale ha rimpiazzato e completato la Vecchia (Rom., X, 4).
Dopo la morte di Cristo i Giudei non
possono più salvarsi se non mediante Cristo. Dopo la morte di Cristo la
Legge cerimoniale antica (non il Decalogo) ha cessato di preparare gli
uomini al Messia, poiché era già venuto, dunque essa ha perso tutto il
suo valore. Quindi, asserire che i Giudei si salvano senza Cristo e solo
mediante l’osservanza esteriore della Legge cerimoniale è falso e pone i
Giudei in uno stato di privazione dell’aiuto di Dio, senza il quale non
possono far nulla di soprannaturalmente meritorio e salvifico (Rom., X, 5).
Vediamo
ora come il Dottore Ufficiale della Chiesa (san Tommaso d’Aquino)
interpreti la Rivelazione riguardo ai rapporti tra Legge e Fede.
- Tommaso d’Aquino, la legge e la grazia
- Tommaso d’Aquino, nella Somma Teologica (I sezione – II parte, questioni 98-108), tratta il tema della “Legge di Mosè” (I sezione – II parte, questioni 98-105); poi quello della “Legge Nuova” (I sezione – II parte, questione 106 e 108) ed anche del “Confronto tra la Legge Antica e la Legge Nuova” (I sezione – II parte, questione 107).
L’Aquinate spiega chiaramente che per
Legge di Mosè s’intende la Legge naturale e poi divinamente rivelata a
Mosè sul Monte Sinai, ossia i Dieci Comandamenti del Vecchio Testamento,
che successivamente furono perfezionati da Gesù nel Nuovo Testamento
con l’aggiunta dei precetti riguardanti anche gli atti interni (“Non
desiderare la donna e la roba degli altri”).
Per quanto riguarda la “Legge di Mosè”
(I sezione – II parte, questione 98), ossia i Dieci Comandamenti del
Vecchio Testamento, l’Aquinate insegna che “la Legge di Mosè era imperfetta, ma buona, poiché conforme alla retta ragione e alla Legge naturale” (I sezione – II parte, q. 98, articolo 1).
Essa, tuttavia, va ben divisa in due parti: la prima riguarda i “Precetti morali della Legge Antica”, ossia la Legge naturale (I sezione – II parte, q. 100). Quanto a essa, l’Aquinate scrive che “la Legge Antica, essendo data a un popolo simile ad un bambino che deve ancora crescere, cioè passare dalla Vecchia alla Nuova Alleanza, aveva una ricompensa o un castigo temporale e non spirituale come la Legge Nuova” (I-II, q. 100, articolo 7).
La seconda parte contiene i “Precetti cerimoniali”,
che riguardano il culto divino del Vecchio Testamento (I sezione – II
parte, questione 101). S. Tommaso afferma che essi “erano figurativi di Cristo, ossia erano ombre della Realtà, che ci conduce in Cielo”
(I-II, q. 101, articolo 2). Solo questa parte della Legge è caduca e
sarebbe stata abolita con la morte di Cristo, non la Legge morale come
poi dirà sofisticamente Lutero.
L’Aquinate nella I sezione – II parte, questione 102 osserva che “la causa finale della Legge cerimoniale era quella di raffigurare il Messia venturo, Gesù Cristo” (I-II, q. 102, articolo 2); inoltre “il fine delle cerimonie sacrificali, svolte nel Tempio di Gerusalemme, in senso letterale, era quello di innalzare le menti dei fedeli a Dio e, in senso figurativo, di adombrare la Passione di Cristo” (I-II, q. 102, a. 3).
A riguardo della “Durata dei Precetti cerimoniali” della Vecchia Alleanza (I sezione – II parte, questione 103), l’Angelico spiega che “le Cerimonie del Vecchio Testamento direttamente purificavano solo dalle impurità corporali; invece per purificare dal peccato avevano bisogno della Virtù di Cristo venturo” (I-II, q. 103, articolo 2); perciò “esse cessarono di aver valore con la morte di Cristo, con la quale cessò la Vecchia Legge ed iniziò la Nuova ed Eterna Alleanza” (I-II, q. 103, a. 3); dunque “esse non si possono osservare dopo la morte di Cristo senza peccato, poiché sarebbero in tal caso una professione di fede falsa nel Messia non venuto in Cristo, ma ancora da venire, come insegna il Talmud” (I-II, q. 103, a. 4).
Solo questa è la parte transeunte e
temporanea della Legge, invece la Legge naturale o morale e divinamente
rivelata è eterna. L’insegnamento tomistico è attualissimo soprattutto
oggi per aiutarci a confutare gli errori luterani e bergogliani sui
rapporti tra fede e morale.
Infine, l’Angelico affronta il problema dei “Precetti della Legge Nuova” (I sezione – II parte, questione 108, articolo 4) e insegna che “la Legge di Gesù ha liberato l’uomo dalla farragine dei Precetti cerimoniali e giudiziali della Legge Antica,
perciò è detta Legge di libertà”. Ecco il vero problema, sono le
cerimonie giudaiche ad essere farraginose e caduche e ad essere state
abolite da Gesù al quale abbiamo accesso tramite la grazia, la fede e le
opere.
Infatti, per l’Aquinate “con la morte di Cristo cessò la Vecchia Legge ed iniziò la Nuova ed Eterna Alleanza” (Somma Teologica, I-II, q. 103, a. 3); dunque le Cerimonie dell’Antico Patto “non si possono osservare dopo la morte di Cristo senza peccato, poiché sarebbero una professione di fede falsa nel Messia non già venuto in Cristo, ma ancora da venire” (I-II, q. 103, a. 4).
Quindi, non è vero (come insegnano Lutero e
Bergoglio) che la Legge naturale o morale del Vecchio Testamento,
perfezionata nel Nuovo Testamento, cessa se si arriva alla fede, che da
sola basterebbe a giustificare l’uomo.
Nella terza parte vedremo quale fosse la
dottrina luterana, ripresa da Bergoglio, sui rapporti tra fede e morale e
come essa sia stata preparata dalla vita e dal pensiero nominalistico
del monaco tedesco.
- Curzio Nitoglia
(Fine della Seconda Parte)
…(continua)…