di Adrea Colombo
Teologia
della Libertà
Parte
3
Solo Dio garantisce la vera libertà:
“Nella ‘scelta’ dell’Ottimo come telos [finalità] del
proprio essere” sta “l’existentia autentica, perché è
il ‘porsi fuori’ della passione di ogni finito, è il
consolidamento come riflessione perfetta e approfondimento totale
della libertà”. “Lungi dall’essere una limitazione, il legame
della trascendenza è l’unico principio che libera l’esistenza a
libertà, e più il legame diventa assoluto e trascendente e più la
libertà cresce e diventa assolutamente libera. A meno che l’uomo
non preferisca rinunziare all’iniziativa della sua libertà per
scegliere la possibilità ovvero lasciarsi in balia dell’infinità
cattiva e del gioco inevitabile della finitezza”.
Il fondamento di tale scelta per l’eternità, di contro a chi vuole
chiudersi nel circolo vizioso del finito, va ricercato nella “Esse
subsistens ch’è Dio”, il “Bonum subsistens che è
l’amore essenziale della divina perfezione e bellezza”: “Esse
non chiuso nell’ente e limitato dall’essenza e tanto meno
disperso nello spazio e nel tempo, ma emergente in se stesso nella
pienezza dell’atto supremo che tutti i popoli hanno chiamato Dio”.
Ecco allora che “l’ascesa a Dio
può essere detta un ‘salto’, ossia il superamento della sfera
connaturale della realtà da conoscere ed amare.... E può allora
essere detta, questa ricerca di Dio con l’intelletto, una
ricerca d’amore ed una decisione di libertà non qualsiasi
ma proprio come la volontà ultima di fondarsi nell’ultimo
Fondamento ch’è lo Esse ipsum (e di non
arrestarsi all’ens), ch’è pertanto il Vero e il Bene
essenziale, e non soltanto l’apparire delle cose umbratili del
mondo nel rincorrersi all’infinito delle scoperte della scienza,
nell’aggrovigliarsi esasperante delle avventure e disavventure
della storia. L’ascesa a Dio è e può dirsi atto di libertà
in quanto suppone da parte dell’uomo il proposito d’interessarsi
al problema di Dio ch’è è l’impegno per la liberazione dalla
finitezza dell’esperienza e dell’essere in situazione.
L’ascesa e l’affermazione di Dio è atto e affermazione di
libertà in quanto è soltanto col riferimento allo Esse
ipsum, ch’è il Bene e l’Amore essenziale, che l’uomo
si può sciogliere dalle pastoie e bagatelle dell’esistenza e
scrollare di dosso tutti i rispetti umani per puntare direttamente
sull’Assoluto”.
Si può quindi ben dire che “l’oblio
dell’essere” denunciato da Heidegger è prima di tutto
oblio di Dio. Infatti “senza l’essere, ossia fino a quando
l’uomo non ha trovato il suolo dell’essere e non si è
consolidato in esso, egli è preda del caos della molteplicità
della manipolazione della scienza”.
Una realtà che oggi è sotto gli occhi di tutti in tutti i suoi
effetti devastanti. Dimentico di Dio che è l’Essere
perfettissimo, “ipsum esse per se substinses” (S. Th. I,
q. 44, a. 1; “Io sono Colui che è”, Es. 3,14)), l’uomo
cade volontariamente in balia della più pazzesca tirannide, senza
neanche rendersi conto di aver perso la sua dignità di creatura nata
ad immagine di Dio. Infatti “alla trascendenza di Dio, come
emergenza dell’Esse ipsum, è stata sostituita la
trascendenza del Dasein [esserci] come proiettarsi del Wille
[volontà] dell’uomo nel mondo; alla negatività distintiva
dell’emergenza inesauribile e inaccessibile della perfezione divina
[il “Dio ignoto” (At. 17,23) della teologia negativa
classica dello Pseudo Dionigi] è seguita la negatività dell’io il
quale ha fatto del Nulla il fondamento della finitezza dell’essere
secondo l’analisi di Heidegger e Sartre”. Ma allora “se il
nulla è costitutivo della intenzionalità della coscienza e perciò
della libertà, ogni attività di questa si esaurisce nel passare da
finito a finito, come da nulla a nulla nel dileguarsi continuo della
temporalità. E se si può capire che questo passare da finito a
finito ‘insiste’ sul nulla e comporta perciò di volta in volta
una ‘scelta’ e un ‘salto’ – perché il particolare finito è
ridotto dal nulla a nulla e giace perciò nell’indifferenza – non
si può assolutamente capire su questo fondamento il ‘salto’
della libertà ch’è la scelta dell’Assoluto”.
In tal senso si può ben affermare che
è solo nella “presenza dell’Essere” che si compie “il dono
della felicità”: “Il fondo della felicità è l’Essere
stesso ch’è il fondamento della libertà e
nell’inseguimento che la libertà fa della felicità l’uomo deve
uscire da sé proprio per essere se stesso, deve perdersi per
salvarsi, e deve morire per vivere. Morire nella Vita assoluta è
liberare l’Io nella Verità della sua ultima appartenenza e
trasferire la vita sulla soglia della decisione della fede. [...] Se
manca l’Assoluto manca il fondamento e l’etica si dissolve come
puro accadere e come mero sperimentare e più concretamente come
‘lotta di classe’ e ‘lotta per l’esistenza’ che si attua
come lotta per il dominio del mondo ch’è poi la disintegrazione
stessa dell’umanità come valore”. Ecco perché “la libertà
non solo deve ‘entrare’ nel giro intenzionale della ricerca di
Dio, ma la libertà costituisce nella sfera esistenziale il
fondamento stesso di questa ricerca: ossia l’uomo avverte l’urgenza
e perciò la necessità di ‘porre’ il problema di Dio in funzione
del suo proprio orientarsi sul senso e sul fondamento del bene e del
male, della felicità e del dolore, della giustizia e
dell’ingiustizia e quindi infine anche del senso della fine ch’è
la morte”. Ne deriva che “alla dimostrazione dell’esistenza del
Sommo Bene non può essere estranea ma è decisiva quella libertà
che costituisce l’originalità dell’essere dell’uomo
come soggetto di moralità e quindi il fattore principale della
personalità. [...] Allora la dimostrazione dell’esistenza di
Dio appartiene alla costituzione della persona e si radica
nell’intimo della sua libertà. [...] E il Bene Supremo è il Primo
Principio nella sfera del causare e muovere e quindi anche e
anzitutto nello spingere l’uomo alla Verità, a chiarirne il
significato con il ritorno al suo fondamento e compimento”.
È chiaro quindi che una sana morale
si può fondare solo su un fondamento metafisico di vera libertà.
Infatti “la moralità è la proprietà costitutiva dell’azione
umana, colta alla sua prima radice ch’è la libertà, come capacità
di scelta nella determinazione originaria dell’ultimo fine”. In
questo ambito, la libertà e la norma si pongono in un rapporto
originalissimo in quanto “non sono dei momenti dialettici, ma
costitutivi l’uno per l’altro”. Va da sé che “non c’è
libertà senza norma”, in primis la legge naturale come
principio di normatività universale in quanto “partecipazione
della legge eterna nella creatura razionale” (S. Th. I-II,
91,2) . Ma soprattutto “non c’è norma senza libertà”. Ecco
perché il governo tirannico non ha alcun fondamento giuridico, ed è
puro arbitrio, non legge nel senso originario del termine che indica
giustizia, l’equilibrio della bilancia, limite alle azioni umane
affinché il debole non venga travolto dalle prepotenze dei più
forti, e così via. La sfera della libertà è quella della
“soggettività radicale” ossia della “profondità dell’Io che
libera se stesso e si attua mediante le sue aspirazioni”. Al
contrario, “il mondo della scienza e della tecnica oggi avanza con
la sicura presunzione di plasmare il mondo dell’uomo” e vediamo
con quali, folli, conseguenze. Infatti questo presunto “mondo fatto
‘a misura d’uomo’”, senza prospettiva soprannaturale, “ha
per legge il rimando all’infinito, poiché l’inquietudine
dell’homo faber non conosce e non ammette soddisfazione né riposo
poiché questo mondo tecnologico è lanciato all’infinito: ormai
la stessa fantasia sembra in ritardo sulle prospettive della tecnica
di costruzione e distruzione dell’evo imminente” Quella che
Fabro definisce “la schiavitù della tecnica”, ossia
“l’uniformità organizzata” che è “lo strumento
più sicuro del dominio completo della terra”. È “a causa
dell’oblio dell’essere” che “l’uomo si è scoperto come
vuoto di essere che si spinge fino alla negazione di Dio” e si
trova quindi “esposto al demonismo della tecnica”.
Ed è la realtà dispotica e distopica che si realizza schiacciando
ogni libertà del Singolo.