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C’è del marcio in Lombardia, nella Diocesi che fu di Sant’Ambrogio, e non da oggi, né da ieri, ma almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso.



30 marzo 2021
C’è del marcio in Lombardia, nella Diocesi che fu di Sant’Ambrogio, e non da oggi, né da ieri, ma almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

C’è del marcio in Lombardia, nella Diocesi che fu di Sant’Ambrogio, e non da oggi, né da ieri, ma almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso.

Una delle sedi principali di corruzione teologica fu sicuramente il Seminario di Venegono che ha formato legioni di sacerdoti, molti dei quali ancora operanti (tra cui l’attuale titolare della Diocesi Mario Delpini), in uno spirito che definire modernista è dire poco. L’insigne tomista padre Cornelio Fabro, nel suo magistrale saggio pubblicato nel 1974 da Rusconi, L’avventura della teologia progressista, ha smascherato uno di questi corruttori, il cui insegnamento preannuncia già tutti i deragliamenti venuti allo scoperto in modo così evidente ai giorni nostri. Stiamo parlando del sacerdote lecchese Ambrogio Valsecchi che ha insegnato Teologia Morale indisturbato a Venegono dal 1957 al 1967. Braccio destro del cardinale Colombo al Concilio Vaticano II, fra i principali fautori della marxista Teologia della Liberazione, prete operaio nella Torino della Fiat, infine ridotto allo stato laicale da Paolo VI nel 1975. Ecco la dottrina immorale di questo “Pornoteologo”, come lo definisce Cornelio Fabro: Valsecchi identifica l’amore cristiano con l’amore sessuale, quello terreno a livello animale, e considera l’attività sessuale “funzione primaria di crescita spirituale” e “fattore di socializzazione”. Non si tratta, si badi bene, di una sessualità finalizzata alla generazione, come insegna la dottrina cattolica, ma semplicemente dell’eros come realizzazione del “rapporto io-tu”. Per Valsecchi i numi tutelari del “nuovo corso” sono Freud e il marxista Marcuse. La moralità non si deve basare su una “legge naturale immutabile”, come stabilisce il Cristianesimo, ma sulla consapevolezza che “la natura umana varia al variare continuo e inevitabile dell’autocomprensione che l’uomo o il gruppo sociale ha di se stesso”, in un determinato luogo e in un determinato tempo. Al di là del linguaggio involuto, contorto e ambiguo proprio di questi “nuovi teologi”, ciò che risulta evidente è che non esiste una “natura umana” stabilita, ma tutto è “fluido”, tutto va “sperimentato”. Così non esiste maschio o femmina, e si può benissimo accettare una “natura umana” trans, geneticamente manipolata, robotizzata... Va da sé che Valsecchi critica fortemente sia san Paolo che osa condannare come contraria alla natura umana l’omosessualità, sia Paolo VI che nella Humanae Vitae difende la legge naturale contro la contraccezione. Anzi, nel capovolgimento della teologia tradizionale operato da Valsecchi, si arriva al punto di “comprendere”, e di fatto considerare leciti, il peccato solitario, la pederastia, i rapporti prematrimoniali o quelli al di fuori del matrimonio. “Chi sono io per giudicare”? dice oggi l’occupante della sede di Pietro, sulla scia di questa impostazione. E così Valsecchi sembra quasi anticipare le tematiche dei “teologi LGBT”, come il gesuita americano James Martin, in quella che Fabro chiama la “morale dell’immoralità e della sconcezza”.

All’epoca Valsecchi fu tra i principali sponsor e difensori del futuro cardinale ciellino Angelo Scola, il discepolo di don Giussani già in odore di eresia ai tempi del seminario. Quando Scola venne nominato a ricoprire la sede vescovile ambrosiana, nell’omelia di insediamento, ricordò con senso di gratitudine e stima la figura “sofferta” del suo maestro, che lo ha “spalancato alla fede”. Verrebbe da chiedersi: quale fede?

ANDREA COLOMBO


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